Sere fa pasticciando con il telecomando sono inciampato in uno speciale dedicato a Gianni Morandi. Prima di passare ad altro l’ho ascoltato raccontare che con i primi guadagni aveva comprato un frigorifero per la famiglia. Non la spider, un frigo. Mentre mi domandavo se avesse regalato alla sua mamma anche una lavatrice (se in casa mancava il frigo, forse non avevano neppure la lavatrice) ho cambiato canale.
Avevo 10 anni scarsi quando Gianni Morandi apparve per la prima volta in televisione. Allora non guardavo la televisione. In ogni caso ero troppo piccolo per apprezzare canzoni tipo “Andavo a cento all’ora” o “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”. (Immaginate se i Naziskin come li chiamava per sbaglio l’Orietta Berti cantassero strofe così). Ripensavo al frigo dei Morandi anche quando in auto sulle imperdibili onde di “Radio Bergamo anni ’70” ho ascoltato quel capolavoro di qualunquismo green antilettera che è “La via Gluck”. Le cose, come sosteneva già l’Ecclesiaste, non capitano mai per caso. A volte addirittura si manifestano a grappolo. Così, dopo l’Italia dei ruggenti Sessanta di Morandi e Celentano, un articolo di Mattia Feltri in morte di Giorgio Napolitano mi mette sul tavolo un libro pubblicato da Donzelli nel lontano 1996. Avrei dovuto leggerlo a suo tempo, se la nausea da politica che già allora provavo non me l’avesse impedito.
Il libro, straordinariamente ammirevole per profondità di giudizio, misura e qualità di scrittura – doti che nel giornalismo politico contemporaneo sono come l’Araba Fenice – è opera di Miriam Mafai. Il titolo, emblematico quanto dolorosamente malinconico, è “Dimenticare Berlinguer”. Perché leggerlo, e perché leggerlo ora. Come l’intervista a un giovanissimo Morandi (come la patacca ambientalista di Celentano) “Dimenticare Berlinguer” ci riporta in un mondo che abbiamo incautamente scordato. Come avverte George Santayana, chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo. Il mondo in cui DC e PCI raccoglievano il 70% dei voti: il mondo diviso in blocchi e della (conseguente) esclusione dei comunisti dal governo.
Era un mondo migliore o peggiore? Era meglio vivere sotto la cappa vischiosa dell’immobilismo andreottiano a cui si contrapponeva la stupefacente incapacità dei dirigenti comunisti nel comprendere la modernità? L’operaio-massa stava letteralmente scomparendo e i dirigenti del PCI si dicevano convinti della crisi irreversibile dal capitalismo e pure degli “indubbi” successi del campo socialista. Il moralismo ipocrita dei democristiani si saldava alla spietata severità luterana di Berlinguer, dominus del suo Partito, negli anni in cui parole come “divorzio” e “aborto” parevano bestemmie impronunciabili. Era un’Italia migliore o peggiore quella del “compromesso storico”, degli anni di piombo, del referendum sulla scala mobile, dell’austerità e della “diversità” dei comunisti italiani, così orgogliosamente sbandierata da “Re Enrico”, come pare lo chiamassero a Botteghe Oscure per il solipsismo delle sue sofferte decisioni? Lui, il sardo che “giovanissimo si era iscritto alla Direzione del PCI”, secondo la velenosa quanto verosimile definizione di Pajetta; il giovane dirigente che nel 1947, in un celeberrimo discorso rivolto alle ragazze comuniste, proponeva “Irma Bandiera e Maria Goretti come esempio di moralità e spirito di sacrificio”?
Non entro nel merito. Immagino che ognuno abbia già la sua brava opinione sull’uomo e sulla sua politica; diciamo che il piccolo libro della Mafai aiuta non poco a farsene una. Se fossi l’insegnante che non sono stato e non avrei mai potuto essere (troppo impaziente, troppo bisognoso di mettermi alla prova in quello che 50 anni fa mi pareva il grande mondo delle imprese, troppo presuntuoso, forse) questo libretto diverrebbe una “lettura facoltativa” su cui far lavorare e discutere gli studenti. Un mondo di ieri. (Mi viene in mente quello sfessato di Stefan Zweig, nobilissima persona dai nobilissimi intenti, che pur tuttavia non aveva capito una mazza dei tempi suoi). Un mondo lontano come quello di Adriano, quando gli imperatori talvolta erano pure poeti. Quando poche famiglie italiane possedevano il frigo e la lavatrice, e quell’ineffabile reazionario di Pier Paolo Pasolini frignava per la scomparsa delle lucciole.