Tra le tante citazioni citabili di Philip Roth, Paolo Di Paolo su Rep del 21 maggio ci propone questa: “La gente non legge pensando all’arte: legge pensando alle persone”. Magistrale e, con buona pace di chi non sapendo scrivere fa il critico letterario, definitiva.
Come si trasforma un personaggio in persona, ad esempio Nathan Zuckerman, questo Roth si guarda bene dello spiegarlo: d’altra parte lui fa lo scrittore mica il critico. Del resto in casi come questo le spiegazioni “tecniche” – ammesso che vi siano – sarebbero del tutto inutili; consideriamo il personaggio “persona” nel momento stesso in cui avviene la sospensione dell’incredulità, e iniziamo a nutrire per il personaggio divenuto persona sentimenti di avversione o empatia, affetto o disgusto. E questo può avvenire dopo cinque righe come dopo cinque pagine, piuttosto che mai. Quando Swann, Huckleberry Finn oppure Holden Caulfield, apparendoci come persone compiono il miracolo di portarci fuori dal nostro “qui e ora” e dalla nostra individualità?
In quale scena, passo o circostanza ciò avvenga varia da lettore a lettore, e addirittura da lettura a ri-lettura, perché l’opera d’arte si riconosce in quanto tale anche dal fatto che miracolosamente cambia nel tempo; così, come per magia, quel che ci appariva in gioventù è assai diverso da quello che si manifesta negli anni della maturità e vecchiaia, in un corpo a corpo con il testo che è, insieme, comprensione e scoperta di sé.
Poi ci sono le identificazioni proiettive: quante volte ci siamo inutilmente preoccupati per il giovane Holden, costantemente incapace di prendersi cura di sé? Per non parlare delle umiliazioni che Swann si autoinfligge, o dell’esasperante masochismo della signora Bovary, eroina proto-femminista e bas-bleu di provincia al tempo stesso.
Sono trascorsi due anni dalla morte di Philip Roth. Ma, come sappiamo, il più grande scrittore americano del Novecento aveva deciso di morire come autore all’età di 79 anni annunciando pubblicamente il suo addio alla letteratura: “Ho deciso che ho chiuso con la narrativa. Non voglio leggerla, non voglio scriverla, e non voglio nemmeno parlarne”. Non sappiamo se abbia tenuto fede a questa promessa, se cioè oltre al baseball, al nuoto e alla cucina, sue grandi passioni, abbia davvero smesso con la più straordinaria invenzione degli ultimi diecimila anni. Scrivere è infinitamente più faticoso di leggere; soprattutto nessuno giudicherà mai la qualità della tua lettura; ma leggere può essere anche infinitamente più doloroso. Quando Thomas Mann fa morire il piccolo Hanno e poi non contento pure il dolcissimo Nepomuk nipote di Adrian Leverkühn, il lettore sa benissimo che è inevitabile e soprattutto necessario: al completamento della catastrofe dei Buddenbrook prima, e al rispetto del patto stabilito con il diavolo poi.
Anche in questo Roth stabilisce un primato difficilmente eguagliabile. In “Nemesi” il protagonista diventato persona che abbiamo frequentato lungo tutto l’arco del romanzo e con cui abbiamo stabilito una solida virile amicizia, non muore ma assai peggio della morte è condannato a vivere da sciancato nel corpo e soprattutto nell’anima: come Adrian Leverkühn, anche Eugene “Bucky” Cantor è condannato a vivere senza amore. Ma mentre il primo ha consapevolmente venduto l’anima a Mefistofele in cambio del genio artistico, Bucky, il coraggioso e leale Bucky, si punisce per una colpa che non ha commesso. Nemesi, la personificazione della giustizia distributiva ha scordato le sue origini e Bucky la speranza. Quando l’arte raggiunge queste vette i personaggi diventano noi.