Ho concluso la lettura de “Limite” di Remo Bodei (Il Mulino). Una riflessione erudita sul concetto di limite degli Antichi e la dismisura di noi moderni che di limiti (e del senso del limite) sembriamo più non averne. Scrive Bodei: “Nel passato il progresso delle civiltà umane era relativo, sottoposto a cicli naturali di distruzioni e di rinascite, che ne spezzavano periodicamente il consolidamento e la crescita.” Insomma un’idea del mondo a mo’ di Gioco dell’Oca, dove si ritorna indietro all’infinito. Per gli antichi il cosmo è eterno, increato e indistruttibile: c’era e ci sarà sempre. Se non progrediamo in quanto esseri umani, se le civiltà non si perfezionano la causa è da ricercarsi nel susseguirsi sul nostro pianeta di catastrofi periodiche che distruggono il mondo per riprodurlo, di volta in volta, assolutamente identico al precedente. Una cosmogonia non so se più terrificante o noiosa.
Messo da parte il piccolo libro del filosofo che vive e insegna a metà strada tra California e l’Italia, leggo sul web che “i Babilonesi erano in grado di calcolare la posizione di Giove nel cielo… utilizzando un sistema complesso di calcolo che utilizza figure trapezoidali…in anticipo di 1.400 anni rispetto alle capacità di calcolo che sarebbero venute successivamente in Europa. La scoperta si deve a Mathieu Ossendrijver, professore di Storia della Scienza Antica alla Università Humboldt di Berlino e si è guadagnata la copertina dell’ultimo numero di Science”. Lo studioso è arrivato a questa conclusione interpretando quattro tavolette di argilla, databili tra il 350 e il 50 a.C., conservate a Londra al British Museum. (Le tavolette sono lunghe 1 cm e ai miei occhi ignoranti ricordano più un rigolo del Mulino Bianco che un documento storico, ma vabbè)
Le tavolette-biscottino, osserva ancora Ossendrijver, dimostrano come “i Babilonesi utilizzavano la geometria in senso astratto per definire il tempo e la velocità, a differenza degli antichi Greci che usavano le figure geometriche per descrivere la posizione nello spazio fisico”. Insomma, anche se usavano il pensiero astratto convinti che Giove fosse la sede del loro dio, mica scherzano questi Babilonesi. (Con il nome Babilonesi si “indicano le popolazioni di stirpe semitica che, sostituitesi ai sumeri, si stanziarono nelle regioni mesopotamiche… Babele, la più importante città antica dell’Asia Anteriore, era situata sul canale Arakhtu dell’Eufrate” a circa 100 km dall’odierna Bagdad).
Come e perché i più fichi del bigoncio, grandi astronomi, matematici, medici, salvatori dei testi greci classici, gli uomini della tolleranza e della coesistenza pacifica tra le religioni – pensatori finissimi quando ancora noi europei stavamo a mollo nel truogolo del Medioevo più buio e puzzolente – abbiano più o meno d’un tratto smesso totalmente di studiare, ricercare, sperimentare, innovare (e progredire nello spirito delle libertà personali e della tolleranza) è uno dei grandi misteri dell’umanità. Ancora più misterioso e insondabile della ragione che spinse la grande civiltà chinese a sprofondare nella chiusura autistica nell’età del nostro Rinascimento.
Perché il mondo arabo nella sua accezione più ampia non produce più nulla di rilevante (musica, letteratura, istituzioni politiche, architettura, urbanistica, filosofia, matematica, astronomia, fisica, chimica…) da circa 900 anni? Perché se ne stanno – intellettualmente parlando – seduti sulle sabbie a contemplare la Luna con dattero e cammello? Forse perché, come sostenevano gli antichi a proposito dell’universo eterno ed eternamente immutabile, si erano spinti troppo oltre in passato varcando limiti che non avrebbero dovuto? (La tesi del peccato di hybris è affascinante quanto inconsistente: gli dèi permalosi e vendicativi si sono ritirati da un pezzo; nei templi dove alte si levavano le suppliche, ora prosperano solo le erbacce…)
Se fino a qualche anno il quesito “come si conquistano alla modernità consapevole 1,5 miliardi di individui” era irrilevante al punto da interessare solo gli islamisti, la questione merita oggi qualcosa di più di una semplice riflessione. Come temeva Abraracourcix, non sia mai che il cielo ci cada sulla testa.
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