E’ più forte di me. Leggo anche la carta del formaggiaro, figurarsi il pacco dei biscotti del Mulino Bianco. Stava lì sul tavolo della cucina, proprio dove deve stare un pacco di biscotti. Ho pensato subito al collega che ha avuto il coraggio di scriverlo quel testo. Alla faccia dell’account (esistono ancora gli account nelle agenzie?) e poi via via su per la “catena di comando e controllo”, come abbiamo imparato a dire sin dai tempi di Desert Storm, quando le notti magiche erano i lampi e i tuoni delle bombe su Bagdad. Immagino il Direttore Creativo: avrà distrattamente approvato; e il Cliente, che dopo lunga e sofferta riflessione, avrà apposto la sua sigla. (Nota: i Clienti riflettono sempre lungamente e dolorosamente).
Il risultato (se riesco ad inserire la foto nel punto giusto) lo vedete qui sotto
La frase incriminata non è “l’inzuppo perfetto”. E nemmeno “per chi ama inzuppare”. (Già m’immagino le scompisciate degli amici di Roma…). Il crimine sta nell’uso dell’aggettivo iconico: “… uno dei biscotti più iconici di sempre”. Scritto in grassetto.
Ora come tutti sanno, o fanno finta di sapere, iconico deriva dal greco. In quella povera lingua perduta rimanda a immagine. In semiotica viene usato per specificare che è conforme all’immagine del simboleggiato; mentre in storia dell’arte è “detto di pitture e sculture che si propongono un notevole grado di rassomiglianza o corrispondenza formale con l’oggetto rappresentato”.
Quindi un biscotto sarebbe iconico perché assomigliante a un biscotto? Perché è la quintessenza della biscottosità? “Più iconico” rimanderebbe all’ur-biscotto, laddove il prefisso ur sta a significare “antichissimo, primo, originale, schietto”? Ma il primo biscotto (iconico) cosa c’entra con i “più iconici di sempre”? Forse esiste (nascosta?) una classifica platonica della biscottità e l’astuta Barilla – per ragioni di conflitto d’interesse? – ce l’ha tenuto nascosto? Un biscotto è un biscotto è un biscotto, direbbe Gertrude Stein
Tutto qui, potrebbero ragionevolmente chiedermi gli otto affezionati lettori. Non ti stupiscono le mosse del Pelato Prigozino, né ti spaventano i 35 gradi che incombono su Milano; e neppure l’incarico affidato al generale Figliuolo ti fa sperare nell’esistenza della Dea Ragione? Davvero, deficiente che non sei altro, ti scandalizzi perché un collega (si spera giovane) si muove con una certa ineleganza nei meandri della lingua italiana?
La storia delle Macine – “uno dei biscotti più iconici di sempre” – mi ha fatto tornare in mente una delle cose più difficili, più complicate e fors’anche più drammatiche della letteratura del Novecento. S’intitola “L’uomo senza qualità”. Non avrebbe mai visto la luce se un editore lungimirante quanto generoso non avesse finanziato per anni l’autore. Romanzo incompiuto di ardua (eufemismo) lettura, è considerato uno dei capolavori del Novecento. Condannato, come “I sonnambuli” di Hermann Broch per citare un altro dei colossi del secolo trascorso, a languire nel chiuso dei dipartimenti di letteratura tedesca. Eppure, come inutilmente ammoniva George Steiner, lo studio della letteratura contemporanea è sostanzialmente un’attività comparatistica.
Nelle prime trenta abbacinanti pagine il lettore farà la conoscenza di Ulrich, l’uomo di scienza talmente ricco di qualità che (appunto) pare non averne nessuna, posto di fronte ad una modernità nella quale un cavallo vince correndo genialmente e, analogamente, un pugile sconfigge il proprio avversario dando prova di eccezionale intelligenza. Gli eventi narrati da Musil si svolgono all’inizio del secolo nel Regno di Cacania, dove ogni cosa, anche i tombini, recano incisa la doppia k di imperiale e regio. (“Nell’Austria degli Asburgo tutto era imperial-regio, Kaiser-Königlich, abbreviato in K. K. che si pronuncia kaka”).
Così, se è lecito paragonare le cose piccole alle grandi, ringrazio i biscotti “più iconici di sempre”. Mi hanno ricordato che se le storie di Ulrich, Agate e Diotima nascono in un tempo preciso e determinato (la fine della Felix Austria, l’avvento del nazismo e lo scoppio della Seconda guerra mondiale) il loro significato travalica il tempo con la leggerezza, per restare in tema di metafore care a Ulrich, con cui un cavallo da corsa scavalca gli ostacoli. La grande (grandissima) letteratura ha questo di miracoloso: continua parlare di noi ad ognuno di noi anche se è stata scritta anni, secoli, millenni fa. Anche alcuni capolavori che si assumono per bocca hanno superato la prova del tempo: combattono al nostro fianco la fatica di vivere. Diciamo che se il cambiamento climatico non ci mette lo zampino, i capolavori che nascono nelle regioni più nobili e civilizzate del pianeta (Italia e Francia) conforteranno nei secoli i figli e i figli dei figli. Alimenti iconici, verrebbe da dire.