Molti anni fa per un gran numero di famiglie la stanza più importante della casa era il tinello, il locale in via di estinzione al pari della foca monaca che il Dizionario Treccani definisce come “ambiente prossimo alla cucina e con essa comunicante, o apposito spazio della cucina stessa, adibito alla consumazione dei pasti e utilizzato anche come soggiorno, arredato per lo più in stile rustico o con mobili semplici e funzionali“.
Nel tinello di casa dove vivevamo quand’ero piccolo faceva mostra di sè una grande radio di legno scuro che Teresina, la colf che nessuno si sarebbe mai sognato di chiamare colf ma, appunto, lombardamente “la Teresina”, teneva costantemente accesa. Amava ballare la Teresina, cosa assai criticata dai parroci di quel tempo e in quei luoghi, il cattolicissimo, servilissimo e pure come scoprimmo qualche anno dopo, ipocritissimo Veneto. Il ballo, sostenevano, è l’anticamera del peccato. (Cosa fosse il peccato ancora non lo sapevo e non la avrei saputo ancora per un bel pezzo).
Oltre al ballo, la Teresina amava leggere “Grand Hotel”, cosa che mia madre provava a reprimere con inutile severità, timorosa che le mie sorelle subissero l’influenza di quelle storie d’amore fotografiche. Inutilmente, come seppi parecchi anni dopo.
Zingaro, chi sei?
Figlio di Boemia.
Dimmi, tu perchè
sei venuto qui?
La voce tenorile di Giorgio Consolini prorompeva dalla radio a tutto volume mentre la Teresina spicciava le incombenze accennando un passo di danza
I cavalli son stanchi
nell’umida sera
ma la folta criniera
sembra il vento invocar
Inutilmente mia madre abbassava il volume, mentre la canzone provava a dare risposta a quelli che a me allora oggi come parevano misteri insolubili:
Questo è il canto di chi
non conosce frontiera,
è l’ardente preghiera
del gitano che va.
Dimmi, dove vai?
Tornerò in Boemia,
me ne andrò lontan
per mai più tornar.
Non c’era ancora Schengen, ma i migranti gitani di allora riuscivano egualmente a traversare le frontiere dall’Andalusia alla Boemia, nota regione della Repubblica Cechia (sarà questo il motivo della stanchezza dei cavalli?). Il fascino del nomadismo, oltre che stimolare il ballo domestico della Teresina, ispirava in quegli anni anche il canto di Dalida, interprete di un’edizione magistrale de “Les Gitanes”. Gli zingari, lo zingarismo, la zingaritudine sembrò assurgere per un breve momento a simbolo di erotismo magico, di fascinosa malinconia, nonostante la palese inconsistenza del testo:
Resta ancora a cantar
nella notte stellata,
finchè l’alba spietata
faccia il sogno svanir.
Canta che un di
il gran re di Cuccagna
ti regalò
un castello in Ispagna.
Sarebbero passati solo pochi anni, molto ma molto prima che il Salvini indossasse la ur-felpa, e il simbolo del romanticismo erratico si sarebbe minacciosamente trasformato nello stanziale lercio mendicante che sdraiato sui marciapiedi delle nostre città tende fastidiosamente la mano. Il presunto ladro di bambini, accusa criminalmente falsa, ha smesso di galoppare nell’umida sera e preferisce scorrazzare nei nostri tinelli, realtà putroppo vera.
I simboli culturali sono come i ricordi, più fragili della materia di cui sono fatti i sogni. A volte non basterà neppure un quintale di madaleine per riportarli in vita.