Probabilmente solo Harold Bloom riesce nell’impresa di essere universalmente noto e contemporaneamente perfettamente sconosciuto. E ancora: solo Bloom è detestato a sinistra quanto a destra e al centro, ammesso che queste definizioni spaziali abbiano ancora senso (personalmente ritengo che sì, e molto). Infine, probabilmente solo Harold Bloom è universalmente noto pur se la più parte dei suoi detrattori non ha letto le sue opere. Interessante, vero? Ma direi soprattutto emblematico. E’ un classico detestare (un film, un romanzo, un saggio…) senza averli mai visti o letti. Né tantomeno studiati, cosa di cui sarebbe il caso nei confronti di Bloom visto che di mestiere è studioso di storia delle letterature.
Perché è interessante (meglio: importante) riflettere su Bloom e sulle sue convinzioni estetiche? (e di converso quindi, perché è il caso di continuare a leggere questa madeleine) Perché Bloom ha il coraggio, il becco si sarebbe detto un tempo, il talento e “le pezze d’appoggio” nel senso di una conoscenza perfezionata nel corso di svariati decenni di studio, di affrontare il tema del tormentone “buono- no –buono” caro ad Andy Luotto (chi non conosce Andy Luotto, creatura televisiva lanciata da quel genio di Arbore, clicchi qui).
Nell’epoca dei due miliardi di trilioni di foto caricate sul web, dei tre milioni di fantastilioni di video circolati da You Tube, dei milioni e milioni di romanzi pubblicati ogni anno, ogni mese, ogni giorno, dell’infinità di parole messe nell’etere in ogni momento come questa che state leggendo, come distinguere ciò che vale (e varrà nel tempo) da ciò che ha puro significato (e quindi valore) di intrattenimento, gioco, o business? Cosa distingue l’oggetto artistico (film, quadro, romanzo) dal prodotto banalmente e puramente commerciale?
Le persone che praticano il mestiere del distintore si chiamano critici. O meglio, si chiamavano, ché oggi non servono più e sono spariti come le rondini dai nostri cieli. La produzione e il consumo istantaneo di massa dei beni così detti “culturali” ha fatto sì che la figura del critico – cinematografico, artistico, letterario – risultasse via via sempre più insignificante sino a risultare inutile. Se vende (hard seller, best seller, Blockbuster o long seller) ha valore. Se non vende (subito) o se vende poco, non vale. Punto.
Bloom per decenni ha fatto il mestiere di critico nelle più prestigiose università americane occupandosi di letteratura e storia delle letterature. Nella sua opera più nota e controversa, un volumazzo intitolato “Canone Occidentale”, cerca appunto di definire in cosa consista l’insieme delle opere fondanti la cultura occidentale (e con essa, con buona pace degli orientalisti e dei terzomondisti, la cultura tout-court) attirandosi in tal modo gli odi della parte più infantile (e più povera di spirito) della così detta “sinistra radicale”. Che trattandosi di sinistra californiana, di sinistro come lo intendiamo noi aveva solo il gusto delle canne, il surf e l’antimilitarismo.
Bloom è l’acerrimo nemico dell’idiotismo derivante dall’applicazione letterale del politicamente corretto, quella cosa sublime perché sinonimo di tolleranza e rispetto, diventata parodia grazie all’imbecillità del radicalismo per il quale non bisogna (più) studiare Kant o Hegel, bensì il pensiero dei nativi americani; smetterla di praticare la musica di Bach, ma darsi da fare con la ritmica boscimana; preferire la scrittura underground allo studio di Omero, Dante e Shakespeare. Con il risultato che i poveri in denaro impoveriti pure nello spirito saranno condannati in eterno alla marginalità dei coatti.
Poiché nutro gratitudine nei confronti dei miei quattro affezionati lettori, mi guarderò bene dal raccomandare sia la lettura di “Canone Occidentale” che dell’ultimo “Canone Americano” (Rizzoli editore). Sono due mappazze mal scritte e (temo) peggio tradotte: un critico, un grande critico soprattutto, non è necessariamente un bravo scrittore. Escluso Auerbach e pochi altri, in genere più il critico è geniale e più oscura e faticosa e la sua prosa; per intenderci, leggere Bloom è come infilarsi dell’ovatta giù nella gola.
Ma un libro importante – eccoci al punto – mica deve far necessariamente divertire. Come il chirurgo che ti salva la pelle (se ti salva la pelle) mica devi passarci le serate insieme. Perché il lavoro di Bloom è importante? Semplice: ci ricorda che dobbiamo imparare a distinguere la cacca dallo zabajone. Che se è abbastanza facile nel caso specifico, in letteratura (musica, arte, architettura, filosofia…) non lo è affatto. Distinguere ciò che ha valore fondante, non solo estetico quindi, è indispensabile sia per comprendere il tempo in cui viviamo, sia per tentare di comprendere il passato e con esso il nostro futuro. Perché Shakespeare, Omero e Dante, solo per citare i capostipiti, hanno scritto opere eterne? Perché il loro incontro ci commuove, affascina, spaventa, indigna, emoziona ogni volta, e ogni volta come se fosse la prima? Questa secondo Bloom (e non solo secondo lui) è l’essenza della cultura Occidentale e rappresenta quindi il nostro Canone, la nostra storia, le nostre radici. Quelle stesse che dovrebbero aiutarci ad essere meno bestie e più umani.
Perché, infine, Bloom fa incazzare un po’ tutti? Perché dall’alto dei suoi anni ci ricorda che noi tutti dobbiamo morire. E che essendo mortali è insensato gettare il (poco) tempo leggendo (vedendo, frequentando) opere miserevoli e indegne, quando lo splendore e la magnificenza sono lì alla portata di (quasi) tutti. Non teme di fare nomi e cognomi di contemporanei naturalmente, come è giusto che sia da parte di un critico (altrimenti che critico sarebbe?) cosa oggi del tutto scomparsa nelle recensioni, divenute ormai per definizione “consigli per l’acquisto”.
A torto o a ragione quando affronta i contemporanei (Hemingway no, Roth per il rotto della cuffia etc. etc) quello di Bloom è un gran bel suggerimento. Penso sia sensato applicarlo anche alle persone che abbiamo scelto di frequentare decidendo di spendere con loro la moneta più inafferrabile e incostante di cui disponiamo, il tempo.