“L’ultima lezione” di Zygmunt Bauman tenuta a Prato il 3 novembre 2016 a meno di tre mesi dalla morte, è divenuta un libro doppiamente prezioso grazie all’illuminante prefazione di Wlodek Goldkorn sul ruolo dell’intellettuale pubblico. Contrariamente ad altri lavori di Bauman, siamo di fronte ad un testo di semplice e immediata comprensione, il punto d’arrivo del lavoro di tutta una vita. Semplice non significa necessariamente facile, e probabilmente non lo significa mai; uso quest’aggettivo ambiguo perché ho l’impressione che nella sua ultima lezione il grande sociologo europeo riesca nel miracolo di distillare la complessità come l’alambicco le vinacce da grappa; sono pagine leggere e dense a un tempo, una sorta di testamento spirituale sul Novecento e sull’originalità dei suoi disastri, primo fra tutti la Shoah, il secolo delle guerre, delle migrazioni, della fine delle utopie. Si può vivere in una fine del mondo permanente, quando “il diritto del forte di fare ciò che vuole del debole è una lezione dell’epoca dei genocidi”? E se la risposta è positiva, in che modo? La lezione di Bauman ci sprona a non adagiarci su vittore che non possono mai essere totali né tantomeno definitive; le conquiste di civiltà, di libertà non sono mai vinte per sempre, dal male è necessario stare sempre in guardia. “I problemi globali hanno solo soluzioni globali” conclude Bauman. “In un pianeta in via di globalizzazione, i problemi umani possono essere affrontati solo da un’umanità solidale”.
Dopo aver letto questo piccolo libro inevitabile ripensare in quest’epoca di confusa transizione (quando il vecchio muore e il nuovo ancora non nasce, per dirla con Gramsci) alle categorie concettuali che hanno segnato la nostra vita sino a pochi anni fa: destra e sinistra, padroni e operai, sfruttati e sfruttatori, colletti bianchi e tute blu, ceti produttivi e non. Parole invecchiate come tinello, pastrano o panzane (ve lo immaginate oggi un uomo politico che apostrofa un rivale affermando “Onorevole, non dica panzane”?) che pure non abbiamo ancora sostituito. Nel senso che non sappiamo come nominare le cose – le situazioni, i contesti e i conflitti – riconducibili ai dualismi di cui sopra. Non abbiamo le parole per dirlo (le vecchie sono state screditate da un decennio di sberleffi e di vaffa) eppure gli oggetti che quelle parole indicavano – le contraddizioni e i conflitti – esistono ancora. E più forti di prima.
Non potendo nominali, non riusciamo neppure pensarli con facilità, la lucida “semplicità” di Bauman e di Goldkorn per intenderci. Pensare e nominare sono un fatto indisgiungibile se non addirittura la stessa cosa. Nella confusione generata dall’assenza di parole, la strada scelta è la negazione: destra e sinistra non esistono più, sciolte nell’acido come in un rito mafioso; e altrettanto è accaduto a “padrone”, delocalizzato e dematerializzato, sparito dai radar della contrattazione sindacale e del confronto sociale, inesistente come i cancelli di fabbriche generaliste sostituite da una miriade di funzioni produttive disarticolate e distanti tenute miracolosamente insieme da processi che sfuggono all’immediata comprensione di un tempo quando era palese chi produceva cosa (e dove). E’ sparita la classe operaia, ma qualcuno magicamente provvede a produrre e imballare gli oggetti che compreremo su Amazon. E’ sparito il signor padrone, ma non il processo che assume e più spesso espelle e neppure quello che determina prezzi e salari.
E’ cambiato tutto ma non è cambiato niente, direbbe il lungimirante Principe di Salina, non per nulla, da bravo astronomo dilettante, era aduso a rimirar le stelle; è cambiato tutto, ma non è cambiato (quasi) niente, direbbe l’ipotetico viaggiatore proveniente da Alpa Centauri con il compito di valutare l’evoluzione della nostra specie; è cambiato moltissimo ma non l’essenza dei conflitti, direbbero forse gli studiosi che nell’Ottocento per primi compresero il ruolo rivoluzionario della borghesia e la brama inarrestabile del capitale di moltiplicarsi all’infinito.
Cambiano i nomi ma non cambiano le cose: c’è chi possiede moltissimo e chi nulla; chi è esposto e chi è garantito; chi ha voglia di fare e chi spera nella pubblica assistenza; chi ritiene che gli esseri umani debbano vivere in parità di doveri e diritti, e chi s’aggrappa al colore della pelle come un naufrago a un relitto; chi vuole innovare e chi conservare anche a costo di sparire dalla faccia della Terra.
Chi ci può aiutare a distinguere il progresso dal suo contrario, il futuro dalle riedizioni del passato, è l’intellettuale pubblico e qui torniamo alla magistrale prefazione di Wlodek Goldkorn che inizia con una citazione di Hanna Arendt: “ Se il compito della sfera pubblica è gettare luce sugli affari degli uomini in modo da creare uno spazio di immaginazione in cui gli uomini possano mostrare con le loro parole e con le loro azioni, nel bene e nel male, la loro natura, il buio si verifica quando queste luci vengono spente a causa delle crisi di fiducia, dell’invisibilità del potere, del discorso che, anziché rivelare le cose, le nasconde”.
Il discorso che anziché rivelare nasconde. (I greci lo chiamavano logos, passa il tempo ma a ben vedere è sempre questione di parole). Ecco, il compito dell’intellettuale pubblico è dunque questo: fare il guardiano affinché non si spenga la luce.