In Goude we trust

By on Gen 7, 2020 in Comunicazione

La storia delle merci è stata spesso scritta come storia del desiderio, un sentimento persino più forte dei bisogni primari, un tetto sulla testa, la pancia piena, uno straccio a protezione dal freddo. Quando accade le merci diventano desideri condivisi e, a differenza degli individui che le ambiscono, assumono tratti che le distinguono dalla folla delle altre merci. Non tutte le merci, solo quelle che compiono l’impervio percorso che le trasforma in brand e dona loro personalità e caratteri unici e memorabili. Inutile dire che è un evento raro: statistiche USA segnalano che il rapporto di trasformazione di un’idea in prodotto di successo sia di uno a un milione. Ma, attenzione, un prodotto di successo non è (ancora) un brand, e non è affatto detto che lo possa diventare.

Come le persone, i brand possono essere stimolanti o noiosi, conservatori o innovatori, barocchi oppure minimalisti. Soprattutto chiusi invece che aperti. Quest’ultima categoria – i brand aperti – è la sola degna di interesse. Prendo in prestito il concetto dalla semiotica secondo la quale “un’opera aperta è un testo che permette interpretazioni multiple o mediate dai lettori. Al contrario, un testo chiuso conduce il lettore ad una sola interpretazione”. Un brand è ontologicamente un “testo”: una preposizione che fa sì che un evento, una serie di eventi, accadano.

I brand “aperti”, più rari di un unicorno rosa, si riconoscono immediatamente: trasformano uno spot pubblicitario in un fatto culturale da guardare con curiosità e piacere; quelli “chiusi” se pur dotati di forte personalità sono più noiosi di un pomeriggio di pioggia a Busto Arsizio. Un caso di scuola è il comparto automotive, presidiato com’è da brand che raccontano sempre la solita vecchia storia brum-brum.

Una (lunga?) premessa per arrivare alla mostra di Jean-Paul Goude promossa da Chanel, il brand più aperto che ci sia. Un’esplosione di creatività, intelligenza e libertà espressiva che il brand non solo ha consentito ma ha richiesto e preteso. Perché Chanel a partire dalla persona che è stata Gabrielle Bonheur Chanel, è creatività, libertà espressiva e progresso. Sì proprio lui, il signor Progresso che abbiamo imparato a disconoscere negli oggetti che di norma il mercato ci apparecchia; e nei contesti che gli oggetti presuppongono e di cui sono il presupposto che chiamiamo “processi”. La moda di Coco Chanel è immediatamente progresso e progressività, nasce dalla libertà delle donne che hanno sostituito al lavoro gli uomini partiti per il fronte. La Belle Époque, bella per pochissimi e di merda per tutti gli altri, è finita e le donne non hanno alcuna intenzione di tornarsene a casa, donne che hanno tagliato le chiome e accorciato (vertiginosamente) pure le gonne.

Questa è la natura del brand e la sua cultura: inevitabile che il brand continui ad esprimerla, ne andrebbe della sua reputazione (prima) e della vita stessa (poi). Cultura che si respira in ogni atto, testimonianza, documento e passaggio. La premessa – la conditio sine qua non – che rende libero (anzi: costringe) un tipetto come Jean-Paul Goude (fotografo, coreografo, cineasta e designer) a produrre strumenti di comunicazione commerciale – perché questo -sono  – che ripercorrono, reinterpretano e finanche riscrivono la cultura visiva del Novecento: cubismo, futurismo, Dada . Duchamp, Picabia e Tinguely … musica, danza, scenografia, pittura, scultura, design,  in un delirio di fastosità, spettacolo e intelligenza da togliere il fiato: il video della mostra dura un’ora buona e il tempo trascorre senza che lo spettatore se ne accorga.

Una domanda e una riflessione. La prima riguarda la depravazione del “politicamente corretto” che con il me-too “selettivo” (fateci caso, mai un’operaia, una commessa e neppure una cameriera di fast-food, ma sempre e solo impiegate dello star system) si spera abbia raggiunto il suo apice e inizi quindi la parabola discendente; come afferma Woody Allen, le cacce alle streghe hanno di bello che prima o poi finiscono. Le narrazioni di Goude, così sbrigliate e birichine come direbbe Natalia Aspesi, così scopertamente erotiche e superbamente postribolari, sarebbero ancora commercialmente possibili ai giorni nostri? Che accoglienza riserverebbe il tribunale della contemporaneità alla mitologia della seduzione, dell’incanto e della trasgressione che Goude celebra in ogni fotogramma?

(gli anni ’80 saranno pure stati terribili con tutta quella Milano da bere, la volgarità socialista e l’orrenda disco-dance, ma che esplosione di vitalità e di amore per la vita, e che gioia e voglia di sperimentare, di sfidare, di giocare e di avere persino fiducia nel futuro…)

Il brand come novello Principe protettore/promotore delle arti. Come il Principe rinascimentale, il brand persegue uno scopo. Come il Principe, il brand può essere autenticamente interessato all’arte, anche se non necessariamente. Come il Principe il brand ha compreso che il suo destino è la meraviglia, la magnificenza, lo stupore. Come il Principe, il brand ha imparato che il potere non ammette tregua né requie: non sono previsti salvacondotti e neppure amnistie. La seduzione è una guerra totale che non contempla prigionieri. Come il Principe, il brand crea fondazioni, espone Wunderkammer, apre musei. Perché, come il Principe, il brand una cosa desidera su tutte: l’amore dei sudditi.

(Dettaglio: il titolo della manifestazione. “In Goude we trust”- che è poi anche l’indirizzo del sito – ingoudewetrust.chanel.com. – non avrebbe avuto l’approvazione del grande David Ogilvy. L’inventore della pubblicità moderna sosteneva che un motto di spirito non sarà mai una buona head-line).