Ieri sera mi chiama BC. Vai su Rai 5, c’è “L’Orfeo”. Giunto al termine di una giornata resa afosa da un mestiere che ormai non imbruttisce solo noi milanesi, ho ascoltato quello che ho potuto. Nel senso che Monteverdi molto dà ed altrettanto chiede. Era la replica dello spettacolo andato in scena alla Scala nel 2009 per celebrare i 450 anni della sua nascita.
Un’edizione di straordinaria rarefazione (la regia, scene e luci sono di Robert Wilson) dove la scenografia iper-minimalista serve così perfettamente la musica (e il testo sublime) al punto di trasportare lo spettatore in un mondo sospeso, quello dei vivi che si recano nel mondo dei morti. Le posture dei cantanti (la rigidità da manichino delle anime morte?) gli abiti di scena, i volti truccati di bianco, la scena dove campeggiano solo cipressi e in alto sospesa la lira del poeta, rafforzano se possibile la dimensione ipnotica di passaggio, sospensione, irrealtà tragica.
L’Orfeo fu rappresentato per la prima volta nel 1607 a Mantova ad un pubblico iper-sofisticato. Claudio Monteverdi segna il passaggio della musica rinascimentale alla barocca negli anni in cui il primato italiano – culturale, artistico, scientifico – lentamente ma inesorabilmente declina.
Mi ritengo un piccolo allievo di Umberto Eco. Piccolo, nel senso che l’ho letto e studiato e persino cercato di capire ciò che scrive (i suoi testi tecnici sono spesso al di là della normale comprensione). Ho fatta mia la lezione dell’alto che si mischia al basso, del mass, del mild, del kitsch e del pop, secondo la ricetta post-moderna che vede Superman in versione Clarck Kent tenere per mano Nietzsche, Carmen scosciata come da contratto accendere un sigaro a Pietro Gambadilegno, mentre Aschenbach il vecchio marpione, luma Tadzio sul sottofondo dei Queen. Purtroppo (o per fortuna) con Monteverdi non si può. Nel senso che non funziona proprio.
Anche per questo, per questo ennesimo esempio, ho il fondato sospetto che non esistano scorciatoie, sconti o tariffe speciali. La grande cultura (mi verrebbe da scrivere: quella “vera”) continuerà inevitabilmente a pretendere fatica e attenzione, rigore e impegno, studio e passione, prima di concedere come una dama bellissima e crudele le proprie gemme. Un dramma che nessun ascensore sociale (peraltro rotto da un pezzo) potrà mai risolvere.
(A questo proposito, non è forse inutile leggere “Masscult and Midcult” dell’americano Dwight Macdonald (edizioni e/o 1997)lavoro definito da Eco “bellissimo e aristocraticissimo saggio”. La definizione di cultura alta, bassa o “mild” che propone è impietosa. Ma indiscutibile).