Pochi pensieri hanno mantenuto validità nel tempo come quello formulato da Gramsci a proposito di egemonia culturale, il concetto che indica la “direzione morale culturale” di un gruppo sociale prevalente. E’ un pensiero reso tangibile dai comportamenti che ognuno di noi può osservare più volte ogni giorno quando, ad esempio, mode altrimenti elitarie diventano fenomeno di massa. Chi faticosamente le fa finalmente proprie, non si rende conto che sono state abbandonate da quelle stesse élite che le avevano promosse; o di aver acquisito un prodotto palesemente succedaneo, un “mee-to” che si sforza di imitare l’irragiungibile modello “alto”.
Qualche esempio.
- La moda hipster dei barbuti ciclisti che prescrive l’acquisto di insensati velocipedi a scatto fisso, vero trionfo dell’imbecillità newyorkése, adottate anche in località non esattamente in pianura, che troviamo in vendita anche al supermercato, versione iper-tamarra con catena verniciata di bianco.
- I jeans strappati indossati dalla quadratica coppia peruviana di mezza età dai fieri toraci andini, orgogliosa di esibire un segno di giovanile integrazione.
Purtroppo per loro (purtroppo per noi) sia bici che i jeans sono un’imitazione, una parodia “in basso” del modello originario “in alto”: irragiungibile perchè inimitabile. Come i finti Ray-ban a specchio esibiti quando la moda era già trascorsa da un pezzo o i simil-Rolex di plastica che qualche anno fa erano il tragico emblema del vorrei-ma-non-posso.
Il marcatore culturale più evidente e più immediato è tuttavia un altro. I “culturalmente poveri” si riconoscono oltre che dagli abiti e dagli accessori soprattutto dal corpo; se con l’impegno puoi imparare una lingua, laurearti in ingegneria e danzare il valzer che neanche al ballo delle debuttanti, con il corpo non basta. Lui richiede tempo per cambiare, generazioni di cure, di buon cibo e sagge pratiche di salute, cose che abbiamo faticosamente conquistato in decenni e che ora stiamo rapidamente gettando alle ortiche.
A questo pensavo mentre facevo la spesa alla Coop: alla percezione che abbiamo delle cose e a quel paradigma dell’egemonia che pareva miracolosamente mutato. Pensavo a “noi” e agli “altri”, a come con tutta evidenza anche stavolta non ce l’abbiamo fatta: ha vinto il pensiero che separa, che distingue non sulla base del talento, dell’impegno e della volontà, ma su quello di un’identità incomprensibile astratta e fumosa: non è forse un perfetto esempio di italiano al cubo quel Mario Balotelli dall’accento bresciano e l’irrefrenabile vocazione alla spacconeria cazzara?
Così la legge che avrebbe dato dignità e doveri a 800 mila persone nate in Italia (che parlano la stessa nostra lingua, studiano e lavorano nelle nostre stesse città, si nutrono del nostro stesso cibo e, come molti di noi, vanno pazzi per cazzate come i jeans strappati e le bici stupide) non passerà. Questione di “egemonia culturale esercitata un gruppo prevalente”. Non so se più triste o provinciale.