Ho sempre amato l’America. Anche quando non si doveva, eppure la sia amava lo stesso. Anche al tempo del Vietnam o quando ammazzava i suoi Presidenti e poi pure i fratelli candidati alla presidenza. L’America “allegra e bella tutti ti chiamano l’America sorella” cantavano i migranti. Il paese che, nonostante tutto, la vince facile con la forza magnifica dell’unico soft-power degno di questo nome. Quella roba che gli Istituti Confucio per la promozione e l’insegnamento della lingua e cultura cinese non riusciranno mai ad imitare.
L’ultimo prodotto dell’immaginario americano è all’insegna del lieto fine. Utile sempre, ma particolarmente in questa epoca di sciagure. Una serie tv dove la zuccherosità dei buoni sentimenti fa schizzare gli indici glicemici. Si chiama “New Amsterdam”. Prende il nome da un ospedale pubblico di New York che, nonostante un cancro alla gola, un medico malato pure di onnipotenza rimette in sesto ridando entusiasmo e voglia di lavorare a guardiani, inservienti, infermieri, impiegati amministrativi, baristi. Nessuno sfugge alla sua volontà democratico-rivoluzionaria di fare. Neppure i quattro gatti di medici, sempre gli stessi immagino per ragioni di budget, che tagliano, intubano, diagnosticano, dialogano, soffrono, combattono e (ovviamente) vincono all’insegna del “come posso prendermi cura?” di obamiama memoria.
Gli antenati di New Amsterdams sono E.R. e il Dottor House. Forse ci sta pure una spruzzata di Grey’s Anatomy. Ma mentre in E.R. il tema è la lotta del singolo per affermare sé stesso salvando gli altri, e House è l’artista della diagnosi differenziale, il focus di New Amsterdam è il denaro. Priva di un’assistenza sanitaria degna di questo nome, la nazione più potente e ricca al mondo espone i suoi figli a torsioni disperate: se non hai denaro, se la tua assicurazione sanitaria non ti copre, il diritto alla salute è una colossale presa in giro.
Perché è bello guardare N.A. nelle rosse sere del Covid? L’arte americana del coraggio, del pragmatismo, della cultura del fare, raggiunge vette che neanche Reinhold Messner nei giorni migliori. Un’arte ingenua e spiccia, che crede nei miracoli, che costruisce caparbiamente comunità (nel senso di koinè, la lingua comune) anche dove sembrerebbe impossibile; e l’impossibile nel paese del turbo-liberismo dei robber baron, come venivano chiamati alla fine dell’Ottocento gli imprenditori privi di scrupoli, diventa realtà: un ospedale che cura tutti, soprattutto chi non ha i soldi per curarsi. La parola “socialismo”, sia pur pronunciata con ironica accentazione, risuona sovente anche se la serie è ambientata nel paese che più al mondo guarda con terrore all’idea sovversiva dell’eguaglianza sociale e della tutela dei più deboli. Calvino, quello di Ginevra, docet: la povertà è una colpa, la ricchezza è figlia della predestinazione.
Inevitabile per chi come me ama l’America nonostante gli amerikani, chiedersi perché non siamo capaci di copiare il buono dell’America. Mentre siamo abilissimi nel fare nostri i peggio riti e le più infantili manie. Perché nel migliore dei casi le nostre serie raccontano lo strapaese del prete sagace e del carabiniere sciocchino; perché i nostri caratteristi, le spalle dei protagonisti principali, siano figurette inalienabili come nel teatro dei burattini, e il talento medio è giusto buono per la sagra del peperoncino. La sospensione dell’incredulità, quella cosa che l’ormai insopportabile Murakami viola peggio di un elettore dei 5 stelle, è come il muro del suono. Per abbatterlo ci vogliono motori (sceneggiatura) e strutture alari (attori e regia) adeguati altrimenti l’aereo non vola e la storia non decolla. Avete mai guardato una serie USA da questo punto di vista? Di come anche lo scopino inquadrato secondi due è un signor attore? Mai notato che i nostri coatti sfuggiti agli utili lavori dei campi e alle nobili pratiche della supply chain recitano da cane e per di più con l’accento di Centocelle?
La forza delle storie americane da “Moby Dick” e da “La casa dei cento abbaini” in poi, è la capacità di rappresentare il mondo che sta fuori la storia. Che la circonda e le dà spessore e sostanza. I contrasti. Le lotte. Le tendenze. Il nuovo contro il vecchio. L’idealismo marcio contro il pragmatismo sano. La legge da onorare e la regola da (saggiamente) aggirare. Lotte. Conflitti. Drammi. Problemi. Soluzioni. Solitudini. Dolore. Riscatti. Rinascite. Il gran teatro della vita insomma, raccontato in modo ingenuo ma mai rozzo, con i suoi anacronismi al limite del ridicolo, e l’ottimismo a volte insopportabile di chi una nazione la vuole ricostruire ogni giorno. “Domani è (sempre) un altro giorno” nel paese in cui, nonostante errori, crimini e misfatti, dopo un Trump arriva sempre un Biden.