Dentro e fuori il Salone

By on Apr 9, 2019 in Contemporaneità

Come ogni anno da quanche anno, è scoppiata la design week. Che poi bisognerebbe aggiungerci una esse perché da una le week sono diventate una e mezza o più probabilmente due. Tutto un fiorire di cose e di persone che partendo dal centro con progressione logaritmica hanno occupato le periferie. Che sia giunto il tempo del “Salone” (solo gli sprovveduti specificano “del mobile”) te ne accorgi dalle fogge in circolazione nella metro (a Milano la metro è rigorosamente femminile mentre il tram fieramente maschile) e dalla conseguente babele delle lingue. Bellissimo, anche se faticoso per gli autoctoni; stupendissimo, anche se stucchevole come l’ennesimo evento “fuori Salone” inevitabilmente simile a quello precedente e a quelli successivi; internazionalissimo, anche se le cacche progettuali abbondano come l’orrenda “Maestà sofferente” di Gaetano Pesce, monumento non al “cattivo gusto” bensì all’assenza di gusto, reato infinitivamente più grave. (Gaetano Pesce è stato decorato da Vittorio Sgarbi con il titolo di “anti-Boeri”, e questo dice parecchio se non tutto).

Dove voglio arrivare? All’evidenza. Il Salone (del mobile) c’è da sempre, le design week (con la esse) sono un’invenzione assai più recente. Che si può far risalire alla rinascita della città. Perché Milano per lunghi (lunghissimi) anni non era bellissima, stupendissima e internazionalissima come invece oggi è. Chi ha la mia età ricorda gli anni di piombo. E poi quelli da bere. E infine la tristezza micragnosa e provinciale delle amministrazioni della Lega Nord (sì, proprio quella). Per giungere alla stagione in cui il governo della città era affidato alla signora Letizia Maria Brichetto Arnaboldi, vedova Moratti, e in Regione Lombardia splendeva l’astro celestiale di Roberto Formigoni, attualmente ospite del carcere di Bollate.

Tutto bene? Certamente no se scordiamo, e l’abbiamo già scordato, che i progetti quelli grandi come quelli piccoli, hanno bisogno di tempo. E il tempo per essere speso bene richiede chiarezza di obiettivi, tenacia strategica e cocciutaggine tattica. La rinascita della città viene concordemente datata con l’Expo, progetto fortemente voluto anche dalla signora Letizia Maria Brichetto Arnaboldi vedova Moratti, e poi sostenuto coerentemente dalle amministrazioni successive. La rivoluzione urbanistica della città prende le mosse da lì, e una volta preso l’abbrivio Milano non si è fermata più.

Cosa abbiamo imparato che non sapevamo già? Che il “presentismo”, malattia infantile del populismo, è il cancro della nostra epoca. Col presentismo che azzera il passato si ammazza in embrione anche il futuro. Che qualsiasi progetto – Colosseo, Torre di Londra, ponte di Brooklin – richiede un respiro lungo decine di anni e una visione di mondo. Che il vivere in una continua giostra elettrorale come noi viviamo da più di dieci (venti?) anni è un suicidio che al confronto i lemming sono dei Salomoni di saggezza. Progettare una città è progettare il futuro: richiede tempo oltrechè competenze e cultura. Soprattutto cultura. La cosa che il presentismo populista detesta di più. Ha compreso che non è sufficiente detenere potere e diventare casta. Bisogna studiare, molto. E non è detto che basti.

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