“Senza la stampa indipendente io e la mia bambina saremmo due delle innumerevoli vittime ignote e ignorate” ha affermato Alma Shalabayeva secondo quanto riportato da Adriano Sofri su “La Repubblica” di sabato 28 dicembre. Se non se ne parla non è accaduto; se si tace non esiste. E anche quando se ne continua a parlare e la documentazione è copiosissima e indiscutibile come nel caso dei campi di sterminio nazisti, ci sarà sempre qualche perverso o debole di mente che proverà a negare l’evidenza. Ma parlarne, nel senso di dare pubblica testimonianza del fatto e dei responsabili, è la prima arma contro l’abominio e l’ingiustizia.
Questo fatto non so se più ridicolo o scandaloso della signora kazaka consegnata contro la sua volontà dalle autorità italiane ai servizi segreti del suo paese, mi hanno fatto tornare in mente le vacanze di Capodanno di qualche anno fa. Ospite di un amico affettuoso quanto caratteriale, dopo un’ottima cena attorno al camino era nata una discussione presto degenerata in rissa verbale, come da tradizione di quella che una volta veniva chiamata sinistra.
Partiti abbastanza asetticamente dalle differenze tra politica interna ed estera di uno stesso paese spesso non coincidenti, eravamo presto giunti a riflettere sulla legittimità dell’intervento militare Usa-Eu che pose fine al massacro tra le nazioni della ex-Jugoslavia. Il diplomatico cinismo di un ospite esperto di Medio-Oriente che discettava sul realismo che in politica estera giustifica le alleanze tra paesi democratici e regimi dittatoriali, aveva ben presto lasciato posto alla veemente passionalità del padrone di casa, decisamente soverchiante se non dal punto di vista intellettuale certamente da quello fisico.
L’acme fu presto raggiunto e superato quando ebbi l’ardire di affermare che non temevo i (probabili) armamenti nucleari di cui disponeva Israele, quanto le ancora improbabili dotazioni dell’Iran. Israele, sostenevo, nonostante la violenza integralista degli ultra-ortodossi, la follia degli insediamenti anti-palestinesi e la preoccupante tendenza ad introiettare dentro sé il persecutore, era (ed è ancora) un paese democratico perché dotato di opinione pubblica.
In Israele era (ed è ancora) possibile dichiararsi pacifisti, opporsi alla politica del governo, scrivere libri, pubblicare giornali, realizzare film e spettacoli manifestamente e liberamente critici, organizzare movimenti e partiti politici, raccogliere firme per questo e il contrario di questo, indossare il bikini in spiaggia ma anche non, comprare un cane, dichiararsi vegani, eterosessuali, omosessuali oppure indecisi e tutto il contrario.
Mentre ai poveri iraniani sudditi di un regime teocratico, oggi più di ieri al tempo del pur orrido Scià, è concessa largo circa solo la scelta della marca preferita di pistacchi. Che come è noto sono tra i migliori al mondo. (Stavo per proseguire con risoluta incoscienza la mia analisi proponendo il confronto dell’opinione pubblica USA vs. URSS alla fine degli anni ’50 quando fui salvato dal provvidenziale intervento della padrona di casa che risolutamente impedì al mio collerico amico di strangolarmi sul posto).
Per farla breve, la signora Shalabayeva ha perfettamente ragione. Giornali, riviste, libri, convegni, congressi e tutti gli strumenti di comunicazione di ogni ordine e grado, sono il brodo di cultura in cui si forma l’opinione pubblica. L’ente più fragile, vulnerabile e manipolabile che esista. Ma anche l’indispensabile baluardo di ogni democrazia. Dai tempi di Gutenberg le “chiare lettere” sono i migliori i tutori della libertà: non a caso la Controriforma vietò il possesso delle Bibbie nelle lingue così dette volgari.
La bella notizia è dunque che, ancora una volta, la “stampa indipendente” ha fatto il proprio dovere, la brutta è che gli abitanti del Belpaese leggono sempre meno. Ma che la nostra di democrazia sia in pericolo lo sappiamo da un pezzo.