Che ho a che fare io con gli schiavi?

By on Lug 4, 2023 in Filosofia

Immagino che ciascuno di noi conservi nel cassetto più riposto dell’anima una qualche antipatia sovrana. Un inconfessabile fastidio che si prova per un personaggio del mondo della cultura, dell’arte o dello spettacolo. Sentimento di cui ci si vergogna come del parente sboccato e indecoroso. Che ci ha fatto X di tanto grave? Perché Y ci esaspera anche solo intravedendone le fattezze in un’immagine di circostanza? Perché la voce di Z ci irrita inevitabilmente? Certo, è stridula come l’abbaio protratto di un cane maltesino; ma è il caso cotanta reazione? Mistero. Ci sovviene, certo, qualche piccolo a-b-c di psicoanalisi. Intuiamo che la ragione dell’avversione alberghi in noi come la repugnanza che taluni nutrono per gli insetti e per le bestie così dette schifose. Timore delle proprie parti “sporche”, avvertono i bigini. Va a saperlo.

La mia vergognosa antipatia che mai avrei il coraggio di ammettere riguarda Simone Weil. La tenera, smarrita fanciulla dagli occhioni miopi che fissano sgranati il mondo dietro la montatura alla Harry Potter. L’inarrestabile (chissà i genitori) ricercatrice del limite che ha scritto, pensato, penato, attraversando la nostra mediocre modernità detestandola come una santa vergine medievale. L’intellettuale dotatissima che cazzia il fratello (genio della matematica) perché la matematica (la scienza, la tecnica) è l’ancella della modernità, della contemporaneità, di quel potere che quanto più una società è tecnicamente avanzata tanto più assomiglia alle forze devastanti della natura.

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Non la detesto perché, giovane studiosa di filosofia, incontra l’altrettanto giovane Simone de Beauvoir – la quale nel frattempo sta scrivendo “Il secondo sesso” mica pizza e fichi – e invece di discutere della condizione umana o, per dire, del ruolo della donna nella società francese, s’incazza come una biscia perché la Beauvoir si rifiuta di lacrimare per i bambini cinesi vittime del terremoto; non la detesto perché giovane insegnante di filosofia decide di vivere spendendo solo l’equivalente di quanto percepito come sussidio dai disoccupati “per sperimentare le medesime ristrettezze di vita”; non la detesto perché sofferente di incessanti dolori fisici (mal di testa, sinusite cronica, anemia) prova “disprezzo e repulsione verso sé stessa” come confiderà al poeta Joë Bousquet; non la detesto perché afferma che nelle Officine Renault, esperienza di otto mesi compiuta per conoscere di persona la condizione operaia evento che aggrava ulteriormente il suo stato di salute, le “è stato impresso per sempre il marchio della schiavitù”; non la detesto perché, tuta da operaio, Espadrillas ai piedi, parte per sostenere la Spagna aggredita dai fascisti e, come un gatto Silvestro qualsiasi, si ustiona orribilmente una gamba con dell’olio bollente; non la detesto perché, giovane studiosa, è certa di aver definitivamente fatto i conti con gli errori teorici di Karl Marx, e neppure perché abbandona la tradizione ebraica della sua famiglia per convertirsi ad un cristianesimo, diciamo così, “radicale”. No, in motivo dev’essere un altro.

E infatti ho finalmente compreso. Il motivo è il rifiuto dell’adultità. Simone Weil, nata a Parigi nel 1909, è l’antesignana dell’adolescenza protratta. E’ l’eroina del non-cresciuto, del non adultizzato: dell’adolescente eterno. Se avesse avuto a disposizione tik-tok, o anche solo i social da vecchi come il faccialibro che uso io, avrebbe fatto sfracelli di visualizzazioni e milioni di like e di cuori. Una dotatissima isterica con la mistica della verginità? Una pensatrice la cui filosofia lungi dal salvare il mondo non riesce neppure a salvare lei stessa medesima? Una persona incapace di prendersi cura di sé che maltratta in ogni modo il proprio corpo fragile e malato perché… bisogna vivere come i disperati, i diseredati, i poveri della terra? (Ancora una volta, penso ai genitori).

Ma come si fa a scrivere ciò che sto comunque scrivendo di una pensatrice le cui opere furono ritenute degne di studio nientemeno che da Albert Camus? Dov’è che ho smarrito il ben dell’intelletto e il senso della misura? (“Anche dal punto di vista letterario Simone Weil può essere considerata una dei maggiori saggisti del secolo” scrive ad esempio Alfonso Berardinelli).

Detesto l’apoteosi della malattia più della malattia stessa. Mi fanno paura, persino più che disgusto, i santi digiunatori, le anoressiche ante litteram, le flagellanti e i maniaci del cilicio di cui è costellata la storia dell’Europa medievale e moderna. Il gusto, il piacere, sadomasochista della privazione, della punizione, del dolore, della sofferenza autoimposta. Per essere più vicini a Gesù, dicono, al suo dolore, alle sue sofferenze. Quel dolore che secondo la Weil ci affratellerebbe ai miseri, ai poveri, ai flagellati dell’umanità. (Che essendo – loro – umiliati dalla vita ma sanissimi di mente, se lo potessero si libererebbero in un attimo della loro condizione). Ma scrivere queste cose, cioè che la Simone Weil si è fottuta la vita con la sistematicità masochista degli adolescenti, non è possibile. E infatti non lo scrivo. Le penso ogni tanto e basta, e poi le rinserro nell’angolo buio del mio cervellino.

Oggi però ho letto la recensione di un libro. S’intitola “La volontaria” (A. Bosc, Guanda). E’ la storia romanzata dell’avventura spagnola della Weil. Nel 1936, a 27 anni, decide di lasciare Parigi e di unirsi alle formazioni internazionali sul fronte dell’Aragona. Trascorrerà 45 giorni, poi lo stupido incidente alla gamba e il ricovero a Barcellona. Quell’esperienza la trasforma completamente. Si convincerà che ogni guerra, anche la più giusta, comporta solo “sangue e terrore”. Afferma l’autore del romanzo che in una lettera inviata allo scrittore Georges Bernanos la Weil sostiene che “le umiliazioni inflitte dal mio paese sono per me più dolorose di quelle che può subire” arrivando alla conclusione che non si debba mai uccidere, neanche in nome della libertà. Giunge alla convinzione che la violenza e la guerra privano di significato qualsiasi obiettivo nobile si voglia raggiungere. Come si può usare la forza disprezzandola, è l’interrogativo che si pone.

Simone Weil viene uccisa dalla tubercolosi nel ’43 all’età di 34 anni. Quindi perfettamente in tempo per godersi lo spettacolo dell’hitlerismo at work: i massacratori che uccidono a prescindere dall’idea di libertà, gli assassini industriali che ammazzano non per ciò che fai (o non fai) ma per quello che sei (o sembri essere).

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Piero Gobetti invece muore nel 1926 a 25 anni a causa delle bastonate fasciste. Ricordo sommessamente che il fragile ma non per questo arrendevole Piero ebbe un’altra idea di libertà e del prezzo che è necessario pagare per vivere da uomini liberi. Il motto che si scelse fu TI MOI SYN DOULOISIN?, ovvero “che ho a che fare io con gli schiavi?”

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Forse ho compreso poco o nulla del pensiero di Simone Weil. Quello di cui sono invece certo è che i filosofi, grandi o piccoli che siano, hanno molte più responsabilità di chiunque altro.