Cazzeggio senza fine

By on Gen 29, 2016 in Comunicazione, Contemporaneità

“Mi occupo di comunicazione” è una perifrasi abbastanza orribile, ma questo faccio. O cerco di fare, sin quando non è la comunicazione a occupare me in senso letterale. Quante volte in questi giorni siamo stati occupati dall’orrido cazzeggio statuario? Giornali, internet, social, televisione. Pure un incredibile “Otto e mezzo”, nel corso del quale ho malgré moi condiviso e ammirato le argomentazioni di uno statuario Sgarbi, una volta tanto autentico “Re delle capre”. E ancora oggi l’orrenda menata della statue coperte, dello scaricabarile, della caccia ai responsabili, trova il suo bravo spazio. Così, passa sotto silenzio l’ennesimo barcone che affonda, i piccini annegati, la gabella danese e gli ottantamila espulsi dalla pur civilissima Svezia.

E’ trascorsa, beninteso inutilmente, pure la Giornata della Memoria. Un solo dato di rilievo: la coraggiosa, inedita e temo inascoltata, riflessione di Gad Lerner in occasione della presentazione di un film che certamente non andrò a vedere (Il figlio di Saul) ma che se fossi il Ministro della Cultura o anche solo il Direttore Generale del Mondo, obbligherei a proiettare in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Non andrò a vedere, così come non ho visto e mai vedrò ogni nuova opera sulla Shoah, per raggiunti (e superati) limiti di sopportazione del dolore, dell’impotenza, del furore.

Cos’ha detto Lerner? I migranti che fuggono la fame, la miseria la guerra, sono i “nuovi ebrei”. Come loro, si vedono chiudere le porte. Come loro si sentono dire che sono troppi, che non c’è posto. Che “la barca è piena” come affermarono soavemente i burocratici svizzeri nel ’41 e ancora nel ’42, quando ributtando indietro migliaia di ebrei li consegnarono con ragionevole consapevolezza ai campi. Di sterminio, non di concentrazione.

Abbiamo accolto il politico iraniano. Abbiamo fatto bene, nonostante che vivere in Iran non sia una passeggiata di salute. Nonostante che l’Iran sia una teocrazia solo un pochino meno peggio di quell’altra che chiamiamo Arabia Saudita e che dovremmo invece chiamare con il suo nome vero, Isis Realizzato: stesso programma, stesse leggi, stessa ferocia. Abbiamo fatto bene ad accogliere l’ospite iraniano (sai le risate davanti alle statue inscatolate) perché abbiamo bisogno di commesse e di lavoro. Senza lavoro, come insegna Weimar, anche la più solida delle democrazie va a puttane. E la nostra di democrazia non mi sembra così granitica.

Siamo stati zitti sui diritti umanitari e continueremo a farlo: siamo un paese piccolo, insignificante e maledettamente indebitato. Potremmo essere un po’ meglio forse. Ma siamo anche un paese i cui media si adeguano a calco sul livello dei loro non-lettori, promuovendo il cazzeggio più idiota, vellicando le parti più ignobili di un comune sentire che farebbe piangere se non facesse ridere. Le statue, le dichiarazioni dei vescovi sulla “famiglia vera”, le battute di Benigni a Palazzo Chigi coi cinematografari. Trova spazio persino il prossimo Sanremo.

E’ nelle crisi che si rivela chi siamo, scrive Lucio Caracciolo patron di “Limes”. Un popolo di cazzari, a quanto pare.