La pubblicità, ormai lo sanno anche i paracarri, non ha mai inventato niente. Contrariamente ad ogni altra forma di comunicazione, la pubblicità non precede, non anticipa, non determina nessun cambiamento. Nel migliore dei casi lo annuncia. Come il solerte commercialista e l’avveduto notaio, la pubblicità annusa lo spirito del tempo e sagacemente lo rende manifesto. È stato così al tempo del “chi vespa mangia le mele” e del “cuore di panna”, campagne dedicate ad una nuova generazione di adolescenti finalmente liberi di scoprire (e in qualche misura pure praticare) sentimenti ed emozioni. Inutile (ingiusto?) chiederle di più. La pubblicità, soprattutto quella “buona” cioè fatta bene, misura la sua ontologia attraverso una sola metrica: le vendite. Tutto il resto – notorietà, reputazione, moralità – sono le fole che il bravo pubblicitario sa di dover raccontare (e, dall’altra parte della...