Empowerment è una parola destinata a perseguitarmi a lungo. Ultimamente non fanno che chiedermi storie non solo di empowerment, ma pure di “empowerment italiano”. Come una pera sbirulina, di quelle stortignaccole che fanno impazzire il Carlin Petrini e crescono solo in Val Vattelapesca. Come se fosse facile scovare storie che narrino del “processo di crescita… basato sull’incremento dell’autostima, dell’autoefficacia e dell’autodeterminazione per far emergere risorse latenti e portare l’individuo ad appropriarsi consapevolmente del suo potenziale”. Storie che devono pure essere divertenti da leggere. Che se poi non le legge nessuno (il web ti conta anche i peli della narice destra) la tua autostima cala peggio del rublo e alla lunga ti levano l’incarico.
E così, pensando a come posso empowermentarmi da me medesimo, mi è venuto in mente che saranno ormai quarant’anni che bazzico la verde Brianza. Nonostante il più alto coefficiente al mondo di Nani da Giardino per metro quadro e una concezione dell’urbanistica che al confronto lo slum di Nairobi pare progettato da Le Courbusier, dalla verde Brianza sgorga ininterrottamente un fiume di empowerment come petrolio dalle sabbie del Bahrein. Lo si tocca con mano ogni volta che si varca la soglia di un’impresa “made in Brianza”, si ragiona (e qualche volta si sragiona) con gli imprenditori brianzoli resi immediatamente riconoscibili per il demone che li possiede, l’amore per il loro lavoro. Un “pensiero dominante” che non sfigura al confronto con quello leopardiano (“Dolcissimo, possente / dominator di mia profonda mente; / terribile, ma caro / dono del ciel…”) che occupa per intero le loro giornate che iniziano (e terminano) prestissimo rispetto al fuso orario della pur contigua Milano: quando nella capitale lombarda è l’ora dell’aperitivo, il brianzolo pranza o cena con tignosa puntualità di sapore svizzero-tedesco. Non chiamate il brianzolo alle 11 e 55. Non vi risponderà, oppure lo farà in malo modo, sta per mettere le gambe sotto il tavolo.
Non ricordo se nei racconti de “La chiave a stella”, uno dei suoi libri più belli, Primo Levi narri storie brianzole. Prometto che indagherò. Ma il succo delle narrazioni è il piacere di fare un lavoro ben fatto; e se possibile fatto meglio di quanto saprebbero fare gli altri. Perché solo il saper fare dà senso e significato all’esistenza. Che è l’essenza della brianzolità, il concentrato ontologico di un modo di stare al mondo che tutto il mondo conosce e apprezza. Sicché la qualità delle “cose” made in Brianza è tale da trasformarle immediatamente nel più bel documento editoriale che esiste: la fattura. (A volte la fattura non c’è, ma siamo uomini di mondo e su questi dettagli non è il caso di sottilizzare)
In questi primi quarant’anni ho conosciuto pazzi e sognatori, visionari e tradizionalisti, innovatori e conservatori. Tutti senza eccezione alcuna avevano nel bene e nel male il tratto dell’eccezionalità. Tutti erano dominati dal daimon della diversità: volevano essere riconosciuti, loro e il loro lavoro, come protagonisti unici, diversi da chiunque altro. Naturalmente non sempre era vero. Non sempre la ciambella riusciva con il buco. E non sempre il buco era tondo nel modo giusto. Ma sempre era autentica la passione che li guidava, l’ossessione per la perfezione e l’ambizione di creare una cosa diversa da tutte le altre. Tutta la Brianza è espressione di quest’ossessione collettiva. Tutta la Brianza è fabbrica, capannone, atelier, studio di progettazione, ricerca, impegno, dedizione. In una parola, follia calma.
E l’empowerment che fine ha fatto? Forse si è nascosto; forse si nega perché sa che detesto la neo-lingua, l’anglo-italian del milanese nato brutto più che imbruttito. Così, cercando di comprendere le ragioni che fanno della verde Brianza una terra di successo, mi è venuto in mente Marco P. e le sue gesta. Netiquette e pure un piccolo conflitto d’interessi mi impedisce di nominarlo per nome e cognome. Gli amici lo chiamano Mark e tanto vi basti. La sua storia, il suo percorso direbbero i milanesi imbruttitissimi, è illuminante come una spada laser: dovete sapere che Marco adora le spade laser e – attenzione – qualunque cosa abbia a che fare con la tecnologia, il design e più in generale con le cose belle. No, non è un semplice nerdazzo. A differenza dei brufolosi onanisti che passano il tempo davanti a una tastiera a scrivere codice, Marco è tutt’uno con la tecnologia perché è la sorgente del gioco. In tal senso Marco P. è un homo ludens a tutti gli effetti, proprio come lo intendeva Johan Huizinga nel suo celebre saggio. E ,coerentemente, ha avuto il colpo di genio di trasformare il gioco in profitto e i suoi giocattoli in strumenti di lavoro.
E’ doveroso tuttavia precisare che ci sono molti modi di giocare. C’è chi i giocattoli li vuole belli e pronti all’uso e, ne converrete, sono la maggioranza. Non è il caso di Marco P. Lui i giocattoli se li costruisce con paziente saggezza (con saggia pazienza). Che siano i modelli che poi fa volare sul lago o le follie verticali costruite con migliaia di Lego, ogni gioco (ogni giocattolo) è il frutto dell’incontro felice tra il bisogno di gioco e l’ossessione maniacale per la perfezione. Mixate queste due componenti e capirete che ogni novità che Cupertino lancia sul mercato, lui Marco la conosce già e sa indicarne con precisione natura, pregi e difetti. (Mi sa che prima o poi Tim Cook si spazientisce e lo querela per insider trading). La foto qui sotto lo ritrae nella fase che potremmo chiamare “modelling”, un periodo caratterizzato da grande produttività e dal raggiungimento di notevoli performance velocistiche.
Ma, come insegna Fëdor Dostoevskij, i giocatori hanno bisogno di stimoli sempre più grandi. Come Picasso dopo il periodo blu e rosa, anche Marco P. ha avvertito l’insostenibile leggerezza della modellistica. Il peso della ripetitività, peggio, della passività. Pilotare un modello in volo è divertente. Ma alla lunga, volo dopo volo, incarcera il pensiero creativo nella sterilità della contemplazione. E Marco P. da bravo brianzolo è innanzitutto un uomo d’azione. Bisognava trovare nuovi limiti da superare, nuove sfide da affrontare, nuovi mondi da esplorare. Cosa di più sfidante (e per lui) più nuovo del proprio corpo? Ecco che, letteralmente da un giorno all’altro, Marco scopre la bicicletta. Ma da perfezionista e maniaco della tecnologia quale è, la bici diventano ben presto due: una per la strada e l’altra per il fuori strada. Tecnologiche. Performanti. Up-to-date. Come tutta l’attrezzatura che impiega per il suo lavoro in terra, in mare e in cielo. Il risultato? 14 kg in meno e migliaia di kilometri percorsi ogni mese sulle strade e nei campi della verde Brianza.
Credo sia questo il segreto dell’empowerment in salsa Brianza. L’amore per il lavoro ben fatto, certo. Ma anche e soprattutto l’aver saputo mutare una passione dell’infanzia nell’opera dell’adulto che, trasformando il mondo, trasforma innanzitutto sé stesso. E continuando nell’infinito gioco del cambiamento, inganna la Nera Signora e annulla il pensare depressivo. A conclusione di questa ricerca posso concludere con ragionevole certezza che l’homo ludens è il fratello maggiore dell’homo faber. E che entrambi non sono equamente distribuiti. La concentrazione più elevata avete capito dove si trova.