Nei giorni scorsi sono usciti su Rep due articoli di Andrea Bonanni dedicati all’Unione Europea. Da quando alcuni anni fa ha lasciato il “Corrierone”, Bonanni scrive sempre meglio, nel senso che affronta con coraggio e sapienza il mestiere dell’opinionista, tra i più difficili al mondo. Bisogna essere documentati e sapere a menadito ciò di cui si parla. Ma non basta. E’ indispensabile “prendere partito”, cioè portare ad una conclusione chiara e distinta il percorso dell’analisi che si è condotta. Ovviamente non è facile. E’ per questo che le opinioni e gli opinionisti che vale la pena di leggere sono pochi. Anche la spina dorsale del giornale per cui si scrive conta; è evidente che scrivere per il Corriere, organo ufficiale del movimento cerchiobottista italiano, è cosa molto diversa che firmare per Repubblica, quotidiano pieno di limiti e difetti a partire da Concita De Gregorio (per gli amici “Hello Dolly”) sino alla quotidiana tonnellata di errori e refusi, ma che tuttavia offre al lettore la chiarezza (la trasparenza) dello schierarsi.
La pretesa dell’obiettività nel giornalismo e nell’informazione in genere, è infatti una sciocchezza più clamorosa persino della dieta vegana ai minori, il mito provinciale di chi parla a sproposito di “imparzialità anglosassone” quando proprio nel mondo anglosassone i media sono schierati come i soldati di Betty davanti a Buckingham Palace.
Andrea Bonanni nei due articoli dedicati ai mali dell’Unione Europea punta il dito sugli errori di progettazione che l’hanno condotta nel vicolo cieco in cui si trova. Parla da europeista convinto e addolorato; indica con chiarezza responsabilità e cause a partire dall’impronta essenzialmente burocratica degli accordi di Maastricht causati dei veti incrociati di Francia e Inghilterra (pare che Khol spingesse per una vera integrazione politica e non solo economica) sino all’ammucchiata finale di ingressi insensati dei paesi dell’ex-blocco sovietico. Un’idea di Europa “allargata” che non trova riscontro neppure nella storia del passato.
Ma cos’è quindi l’Europa, e cosa vuol dire essere europei? Nel suo “Una certa idea di Europa” George Steiner ci viene in aiuto. L’Europa è i suoi caffè: “Dal locale di Lisbona amato da Fernando Pessoa ai cafès di Odessa frequentati dai gangster di Isaak Babel. Dai caffè di Copenaghen, quelli di fronte ai quali passeggiava Kierkegaard nel suo meditabondo girovagare, fino a quelli di Palermo.”. Non solo i caffè, come avrete modo di scoprire se avrete il piacere di leggere questo illuminante libretto.
Ma dopo l’ironia e il sorriso dei caffè e delle piazze, e del piacere tutto europeo del fare i flaneur, ecco il tormento di Steiner: il permanere dell’incubo europeo. Il suo nome è sciovinismo nazionalista, il mostro che alimenta i regionalismi più sfrenati e genera incessantemente l’odio etnico. Regionalismo, populismo, odio per il diverso: tipici manicaretti europei gioiosamente inaffiati dal condimento principe, l’antisemitismo.
Dopo decenni di veti, distinguo, capricci e ricatti, gli abitanti del Regno Unito (non si sa ancora per quanto unito ) sono chiamati a scegliere. Comunque vada, sarà un disastro: se vincono i sì, l’uscita degli inglesi dalla UE sarà un duplice botta, politica ed economica; se invece vincono i no, sarà una permanenza priva di slancio e di amore, come il ménage di coniugi che non abbandonano il talamo gelido per ragioni di convenienza. E in questo caso, tra il disamore inglese e l’ottusità slava, Europa finirà con l’assomigliare sempre più ad un partouze dove l’originario allegro piacere erotico è soffocato da un osceno brancicare di corpi nel buio.
(Ho fatto un sogno l’altra notte. Camminavo nel tramonto su una spiaggia solitaria. Un’oggetto attrae la mia attenzione, una lampada affiora dalla sabbia. E’ la lampada di Aladino. La strofino e il genio mi invita a pronunciare i tre desideri. Incredulo, egualmente scandisco le mie parole: la guerra e ogni forma di violenza bandite per sempre e che nessuno, mai più, soffra sulla Terra la fame e la miseria. Ora tocca al terzo. Il genio mi incalza. Sono incerto e indeciso, temo di esprimere un desiderio superiore ai suoi poteri. Poi prendo coraggio: voglio vivere in un continente i cui valori siano quelli della libertà e della solidarietà, un continente orgoglioso della sua storia e delle sue diversità, capace di tutelare con amore e dedizione la sua grande varietà linguistica e culturale, il luogo dove far rivivere un nuovo umanesimo… Il genio mi guarda affranto e incredulo…)