Bling Bling Academy

By on Ago 6, 2024 in Contemporaneità

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Immaginate se Joseph Conrad, nato a Berdyčiv città polacca oggi ucraina, vissuto in giro per il mondo e finalmente approdato in Gran Bretagna, avesse visto la finale olimpica dei cento metri disputata ieri, giusto un giorno e cento anni fa dopo la sua morte. Se non vi garbasse Conrad (ma perché non dovrebbe?) pensate a un altro grande (grandissimo) letterato inglese, quel tal Rudyard Kipling nato a Bombay nella così detta India Britannica da devoti sudditi della Regina Vittoria, che ha reso infinitamente meno infelice l’adolescenza di milioni di fanciulli nel mondo. Due istituzioni: nelle loro opere celebrano l’idea eminentemente tardo romantica di virtù sportiva, il saper competere mantenendo anche nello spasimo dell’agone quel particolare atteggiamento che nel mondo anglosassone viene chiamato “grace under pressure”: la capacità di mantenere la calma, la compostezza, il garbo e la gentilezza verso gli altri anche in situazioni di massima difficoltà.

Ci siete? Bene. Provate ora a immaginarli comodamente seduti allo Stade de France a godersi l’atletica leggera; Conrad dal volto smagrito col suo inappuntabile colletto duro e la cravatta all’antica; mentre Kipling ricorda un po’ il Keynes maturo canizie incipiente, e un po’ il Nietzsche dai grandi baffoni. Dopo giorni di spettacoli che è generoso definire circensi (biciclettine, canoine, ragazzoni e ragazzone brufolosi chi si ammazzano in piscina) finalmente giunge l’ora di quelle cose che agitavano i Greci al punto da convincerli a precipitarsi a Olimpia sospendendo ostilità e guerre. Tra tutte le specialità praticate nel mondo antico (lotta, pugilato, lancio del disco e del giavellotto, salto in lungo) mi piace pensare che la prediletta fosse la corsa, se non altro per la sovrabbondanza di fughe e inseguimenti pedestri nel mito greco.

Immaginiamo dunque Conrad, l’uomo che ha imparato a scrivere in inglese in età avanzata, insieme a Kipling, il più giovane Nobel della storia, che dopo aver ammirato la compostezza dei quattrocentisti (specialità disumana per eccellenza) e la fatica dei fachiri del mezzofondo, si apprestano a godersi lo spettacolo della velocità.

Pagherei dei soldi per vedere quei due scrutare i centometristi, resi ancor più nervosi dalla partenza ritardata. La regia deve riempire uno spazio narrativo imprevisto, sicché inevitabilmente i prolungati primi piani finiscono con l’esaltare la personalità degli sprinter. E così gli uomini più veloci del mondo appaiono nella veste di maschere bling-bling: collane d’oro, tatuaggi total body, unghie laccate, soffi, smorfie, mugolii, ringhi a bocche spalancate, mani agitate nell’aria a mimare saluti che paiono minacce di animali selvatici. Addio all’eleganza dei quattrocentisti e alla fatica nobile del mezzofondo. Ora va in scena il repertorio del wrestling, spettacolo dove tutto è scientificamente falso affinchè possa apparire verosimile allo spettatore americano medio. Finalmente quando giunge lo sparo è una liberazione: per loro sui blocchi di partenza e per noi seduti sul divano. Si compie il solo atto che motiva la nostra attenzione, la corsa.

Perché il centometrista appartenga, lui solo, alla categoria sociologica del coatto è un mistero. È sufficiente raddoppiare la distanza e l’aura cafonal si dissolve come l’urlo delle Lambo brat green nelle notti milanesi. Anche i signori Conrad e Kipling quoterebbero i duecentometristi nella loro civiltà. Tuttavia, il piccolo libro che ho letto in questi giorni (Cesare Cases, “Confessioni di un ottuagenario”, Donzelli) suggeritomi dall’ottimo quanto generoso Matteo Marchesini qualche traccia la offre. Seguendo l’Adorno dei “Minima moralia” potrebbe trattarsi di uno dei (molti) conflitti attribuibili alla dialettica della modernità, età perennemente in crisi tra tradizione e avanguardia, conservazione e progresso. Il guaio è che a volte è davvero difficile comprendere dove stia una e dove l’altro.