Best practices

By on Set 13, 2016 in Comunicazione

Era un po’ che non sentivo pronunciare quest’espressione e lo confesso, credevo non mi mancasse. Eppure l’altra sera salendo in ascensore in compagnia di una giovane (e bella) professional, m’ha fatto piacere sentirla. Di nuovo. Dopo tanto tempo. La giovane professionista parlava al cellulare con gli auricolari d’ordinanza: “Il conto economico sarà una tragedia ” diceva “Ma del resto il loro obiettivo era la quota: sono riusciti là dove non ce l’aveva fatta nessuno. Questa sì che è una vera best practices!”.

Al di là dell’entusiasmo della mia compagna di (breve) viaggio, best practices è un concetto che come spesso accade nel nostro Paese vuol dire tutto e nulla a seconda delle situazioni, delle mode linguistiche e dei crampi mentali come li chiamava Arbasino di questo o quel Amministratore Delegato.

Eppure di “buone pratiche” come piace chiamarle a me traducendo all’amatriciana, le aziende private e pubbliche, per non parlare dei singoli, hanno bisogno più dell’aria che respirano. Le buone pratiche a differenza delle cattive sono infatti figlie di papà razionalismo e di mamma creatività. Uniscono la sensatezza all’ingegno e il pragmatismo all’eleganza. Un concentrato di buon senso che al di là dell’apparente semplicità è difficilissimo a farsi.

Un esempio classico come la nebbia in Val Padana d’antan sono i video così detti corporate. Croce e delizia di generazioni di producer e di registi con la fregola di andare a Cannes con lo spot in concorso, senza beninteso riuscirci mai, e quindi assatanati per compensazione a promuovere videoni da tre minuti e passa che poi sul web non vedrà nessuno, neppure la zia Peppina nonostante le solerti sollecitazioni dei nipoti.

Video tutti eguali che esaltano fabbrichette tutte eguali, produzioni inevitabilmente tutte eguali agli occhi dei profani, corredati da musichette scaricate on-line, che raccontano storie prevedibili e banali del genere “oh signora mia, ma quanto siamo bravi noi”.

Prodotti di comunicazione – diciamolo subito mettendo i piedi nel piatto – frutto della peggiore malattia del secolo, la più contagiosa e la più difficile da estirpare: quel narcisismo io-io-io che dalle persone si trasmette alle organizzazioni e dalle organizzazioni ai poveri brand: umiliati, banalizzati, generici e indifferenziati come la carta igienica sulle autostrade polacche.

Ogni tanto – per merito o per fortuna, chissà – capita di imbattersi in un’azienda la cui intelligenza consente di lavorare a qualcosa di bello e utile; oppure di utile e pure bello se preferite. Qualcosa in grado di spiegare in pochi secondi le prestazioni funzionali di un prodotto E QUINDI (e quindi!) di dare significato e valore al brand che lo identifica senza menate né giri di parole. Ovvero, a dargli identità e distinzione attraverso il racconto dei caratteri e delle proprietà reali.

Ultimo ma per nulla ultimo, parliamo di produzioni che costano circa un quarto degli ipertrofici spottoni corporate che fanno addormentare la povera zia Peppina.

Quando si riesce a fare un buon lavoro – tranquilli: ogni tanto accade – è perché lo spirito delle best practices si è incarnato. Ecco quattro buoni esempi

Onore al merito: a ITP Spa, l’azienda che ha sposato una strategia di comunicazione originale e diversa; a Filippo Pascuzzi (in arte Pax) il regista che ha saputo persare prima di girare.

Insomma, come ben sa l’affascinante sconosciuta incontrata in ascensore, le “belle pratiche” camminano sulle gambe degli uomini. E delle donne, naturalmente.