Non ho visto l’ultimo spettacolo di Benigni. Non seguo più l’ex-comico – promosso oggi da Eugenio Scalfari al grado di “attore” – dai tempi della “Divina Commedia”. Lettura molto, e giustamente a mio avviso, contestata da Vittorio Sermonti il solo che in questo momento sappia divulgare in modo adeguato l’opera di Dante.
Due serate molto divertenti, sostiene una rumorosa maggioranza di laudatori; spettacolo modesto e indegno, afferma un altrettanto rumorosa minoranza di delusi. Nulla di nuovo: la capacità di segmentare in modo netto è da sempre tipica dell’ex-comico divenuto “attore” (sic).
Un tempo, diciamo trent’anni fa, satireggiando in modo inusitato per creatività, invenzione e trasgressività segmentava tra così dette “destra e sinistra”. Mentre oggi è divenuto il più autorevole rappresentante del genere nazional-popolare inteso, temo, non nell’accezione nobile e alta postulata da Gramsci, bensì in quella “con valore riduttivo, di tutto ciò che rappresenta gli stereotipi e gli aspetti più superficiali di un gusto e di una presunta identità nazionali”.
Questa posizione, a cui del resto è approdato da diverso tempo, è la causa della spaccatura netta tra chi considera con stupore la pochezza dei suoi spettacoli e chi, la corazzata “Repubblica” in testa, ne magnifica le lodi. (Per non parlar di Papa Francesco e delle sua immancabile telefonata).
Situazione bizzarra e, per chi come me si diletta di analisi della comunicazione, godibilissima: basti pensare alla manina maliziosa che, due giorni dopo la sacra rappresentazione benignana, pubblica sul “corriere.it” spezzoni di uno spettacolo di trent’anni fa nel quale il comico toscano non ancora ex, si esprimeva in modo assai diverso riguardo al Creatore e ai suoi comandamenti. (Un evviva alla libera concorrenza e alla competizione giornalistica)
Cosa ne penso, io che non ho visto le due puntate e neppure lo speciale sulla Costituzione? Ritengo che entrambe le posizioni – i laudatori e i delusissimi – siano eccessive.
I laudatori esagerano: gli spettacoli del Benigni 2 sono di livello semi-parrocchiale. Ma anche i delusissimi dovrebbero darsi una regolata, essendo la qualità media propinata dalla Rai di un livello infinitamente più basso degli spettacoli benigneschi.
Per tornare allo spettacolo di cui ho letto sui quotidiani solo qualche amenità tipo: “se crediamo all’Uomo Ragno, come è possibile non credere in Dio?” che offenderebbero le capacità logiche di un bambino di anni dodici, mi piace citare l’interpretazione dei “Dieci Comandamenti” proposta da Christoper Hitchens. Un autore che non mi ha mai fatto impazzire per via della sua ossessiva professione di ateismo che lo trasforma a tutti gli effetti in un “credente di segno opposto”, noiosamente privo di dubbi al pari dei “cavalieri della fede”. Ma è una lettura, come dire, curiosa e stimolante. Che forse il Benigni di trent’anni fa non avrebbe dispezzato.
“Sarebbe difficile trovare una prova più evidente – scrive Hitchens – che la religione è un artefatto umano. C’è, prima di tutto, il ringhio monarchico sul rispetto e il timore, seguito da un severo memento dell’onnipotenza e della vendetta illimitata, del genere che un imperatore babilonese o assiro avrebbe potuto ordinare agli scribi di porre all’inizio di un proclama. Poi c’è un duro ammonimento a lavorare e a riposarsi solo quando lo consente il detentore del potere assoluto. Seguono alcuni rapidi richiami di tipo legale, uno dei quali è di solito mal reso perchè l’originale ebraico dice in realtà Tu non commetterai omicidio … Ma … è sicuramente insultante verso il popolo di Mosè pensare che esso fosse arrivato fino allora con l’idea che l’assassinio, l’adulterio, il furto e lo spergiuro fossero permessi”.