Hey Jhon

By on Ott 5, 2024 in Comunicazione, Contemporaneità

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La buona notizia della settimana sono due. Maurizio Molinari non è più direttore di Repubblica; contestualmente John Elkann fa un passo di lato e si limiterà a fare l’azionista di riferimento.

Molinari, lo ricordo per chi non è come me lettore epifanico dell’amata Rep, assunse la direzione nell’ormai lontanissimo aprile del 2020. Passato per le mani prima di Mariolone Calabresi (immediata conseguenza: perdita di Adriano Sofri) e poi in quelle di Carlo Verdelli, colpevole forse di aver confuso il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari con la Gazzetta dello Sport, il giornale faceva letteralmente schifo. Tra svarioni, refusi, notizie bucate e ondeggiamenti che al confronto il ponte del Titanic era più saldo della coda di una scimmia, la testata che aveva gloriosamente sorpassato il Corrierone perse nell’ordine autorevolezza, lettori, copie e (di conseguenza) quattrini. Questi ultimi in quantità industriale. Al povero Molinari venne chiesto di perseguire un obiettivo già difficile di suo, reso tuttavia letteralmente impossibile dell’assenza di una strategia editoriale chiara e coerente. Che voleva Elkan, l’imprenditore altrimenti acuto e sagace nonostante le movenze da tacchino freddo? Perché Gedi ha comprato quotidiani a palate la mattina per poi rivenderli (in perdita?) la sera stessa? Cosa voleva farsene? E perché ora vuole disfarsene? Mistero.

Un amico sapientissimo di cose editoriali e di adamantina moralità, garantisce sull’onore di Molinari: collega disponibile, generoso, gentile. Ma in questo caso non solo le qualità umane e mondane dell’uomo che contano. Come insegna Conrad, in caso di burrasca al garbato ufficialetto di prima nomina è di gran lunga più saggio seguire i comandi del pur burbero nostromo. Diciamo che Molinari, al di là del vezzo di non rispondere sistematicamente mai alle mail dei suoi lettori, quelli che gli pagano lo stipendio, è caduto vittima della Legge di Stille. Leggendario e autorevolissimo corrispondente da New York, divenne per un quinquennio direttore del “Corriere della Sera”. Dicono che la sua non fu tra le migliori di via Solferino. Come un ottimo pianista non è necessariamente un altrettanto ottimo direttore d’orchestra, così un ottimo corrispondente può essere del tutto inadeguato se il compito è la direzione del giornale. Molinari adora scrivere. Adora parlare. Adora partecipare. Forse (un “forse” più umile di un francescano delle origini) il direttore di un giornale deve esaltare la scrittura altrui, non la propria; forse deve scovare nuovi talenti e pungolare quelli ha in casa; forse – come l’allenatore di una squadra di calcio s’impegna affinchè i suoi uomini giochino nel migliore dei modi rispetto alle loro potenzialità – non gioca, ma fa giocare.

Giorno dopo giorno, l’amata Rep ha fatto sempre più schifo. I suoi inserti (Robinson fra tutti) hanno superato la soglia del ridicolo: due pagine riservate alle recensioni delle giovani tikbooker? E cosa recensiscono le fanciulle oltre ai “romance” delle nuove Liala? Qualcuno dev’essere caduto più volte dal seggiolone da piccolo. Qualcuno dica al direttore che – by the way – i ggggiovani il giornale col cazzo che lo comprano. (E dove poi, che le edicole sono persino più morte di un segretario del PCUS affetto da severo raffreddore?). Ma forse nessuno dice niente al direttore. E forse il direttore s’avvede e lascia correre. Forse. Sino allo scoppio del bubbone la settimana scorsa culminato con le (sacrosante) giornate di sciopero per via di un vergognoso conflitto d’interessi tra le (molte) attività dell’editore e il giornale.

Oggi Christian Rocca scrive su Linkiesta parole oltre modo oltraggiose. Molinari secondo Rocca avrebbe avuto il merito di de-bolscevizzare una redazione forsennatamente orientata a “sinistra” donando così al giornale una collocazione “atlantica”. Giudizio inesatto e sommamente falso. Rep era naturaliter “democratica e occidentale”. Lo era sin dalla fondazione. Il merito di Scalfari, onnipotenza e narcisismo a parte, è quello di aver aiutato un’intera generazione ad uscire dalle secche di un rivoluzionarismo non so se più parolaio o inconcludente per approdare in modo finalmente maturo al riformismo democratico, ad un’idea di società liberal-socialista libera da mitologie e pastoie ideologiche. Parlo anche per me, naturalmente.

Nella mia vita non ho mai lavorato in un giornale. Mi sarebbe piaciuto ma è andata in un altro modo. Ho però fatto “giornali” (chiamiamoli così) cucendoli addosso alle aziende che sceglievano questo mezzo per parlare ai clienti. Dal mondo dei giornali e dai giornalisti ho imparato che un giornale è il prodotto più difficile a farsi. (Mentre scrivo questa frase mi viene in mente l’aforisma di Brecht “il comunismo è la semplicità difficile a farsi”, puttannata sesquipedale, ma ci eravamo bevuti pure quella). Una crema spalmabile, una lattina di tonno, un detersivo – lavorandoci su puoi farli diventare un brand. Ci vuole tempo, denaro, un pizzico di talento oltre che parecchia fortuna. Ma se non sei sciocco, se ti lasciano lavorare, se non ti impongono mission impossibile come capitò a me un par di volte grazie agli imbecilloni dell’headquarter, magari ce la fai. Un brand, una volta fatto, lo puoi sfare, girare e rigirare come un bimbo nella culla (in gergo: riposizionare). Un giornale no. Se cambi il giornale – e Rep è stata sottoposta al cambiamento persino più dei lineamenti della pur gloriosa Patty-Pravo – cambi lettore. Nel senso che il vecchio ti fa ciao (eufemismo) e il nuovo col fischio che l’acchiappi. A ben pensarci, è la stessa logica (la stessa fatica) della competizione politica: prima regola tieni stretti i tuoi. Se perdi loro, hai perso tutto.

Non ho consigli da dare al nuovo direttore, lo scafatissimo Mario Orfeo. Beninteso, anche se ne avessi non avrebbe bisogno dei miei. Una cosa però vorrei dire a John Elkann, imprenditore e persona che stimo moltissimo per quel che ha fatto e lasciato fare a quel genio di Marchionne e per quanto gli tocca di subire da una madre che Medea, al confronto, è mite come una commessa del Carrefour. Al pallido John ricorderei con il dovuto garbo che se prima non definisce le aspettative e gli obiettivi, anche il più grande mago della pioggia non è in grado di far zampillare neppure una goccia.