Andiamo con ordine. Undici settembre, anniversario delle Torri; il giorno dopo, primo dibattito televisivo Harris-Trump. Tragedia e commedia unite da un denominatore comune, la menzogna. Un filo più esile del cavo che sorresse quel matto di Philippe Petit nella traversata da una torre all’altra, ma infinitamente più robusto. Giusto per dirne un paio, i mangiatori di gatti a Springfield a braccetto con le famose “responsabilità ebraiche” nel crollo delle Torri.
Scrivo queste note pensando che la falsificazione dei fatti è la più sperimentata tecnica per la conquista del potere. Alcuni procedono scientificamente programmando la menzogna, altri inventano all’impronta. Non è detto che i primi, i pianificatori, abbiano più successo dei secondi: le masse adorano le improvvisazioni, e quanto più le bugie sono sfacciate e inverosimili tanto più riscuotono successo. Gli esempi made in Italy ci consentono di rivaleggiare con successo anche dei confronti dei formidabili MAGA. E mentre leggo le dichiarazioni di Trump (“Molti non ne parlano perché sono troppo imbarazzati. A Springfield stanno mangiando i cani… Le persone che sono entrate stanno mangiando i gatti, stanno mangiando… Stanno mangiando gli animali domestici delle persone che abitano lì. Questo sta succedendo nel nostro paese”) mi viene in mente che anche la letteratura – forma suprema di interpretazione della realtà – poggia sulla finzione.
Mura di bronzo reggono la grande, fuscelli di paglia la piccola. Ma al di là del materiale con cui è costruita, la finzione narrativa è la più spericolata forma di menzogna mai inventata. Qualcuno ha mai incontrato Ofelia? Davvero la signora Karenina era disperata al punto da gettarsi sotto un treno? E in ogni caso qual è lo champagne prediletto dalla duchessa di Guermantes non lo sapremo mai. Il Narratore si è scordato di dirlo.
Crediamo alla finzione. Per sempre a quella che poggia su mura di bronzo; per pochi attimi a quella costruita coi fuscelli di paglia. Crediamo perché abbiamo bisogno di credere. Crediamo nella misura in cui chi scrive padroneggia l’arte dello scrivere al punto da farci raggiungere (e superare) la soglia dell’incredulità. Credo sia questo il motivo per cui ho smesso di leggere Murakami. Alla quindicesima volta in cui fa apparire dal nulla un gatto parlante o un fantasma da un armadio, decido che ne ho abbastanza. L’invenzione fantastica va giustificata, ne va del patto con il lettore. L’invenzione fantastica non solo va giustificata ma, come sa bene quel l’apollineo Goethe, può diventare il punto d’approdo della narrazione stessa. Accade nelle “Le affinità elettive”, quando il lettore scopre che il figlio di Carlotta e Edoardo non assomiglia ai genitori ma a Ottavia e al Capitano. Chi ha amato “Il maestro e Margherita” comprenderà perfettamente ciò che dico.
Narrazione fa rima con finzione. La finzione dev’essere credibile persino più dell’alibi di un sospettato. Ralskolnikov ammazza per la stessa ragione che lo induce a confessare un delitto (altrimenti) insensato. (Nabokov non sarebbe d’accordo con quello che scrivo, ma per fortuna non ha modo di leggermi, e del resto sono certo che in ogni caso non mi avrebbe mai letto. La sua opinione su Dostoevskij – geniale e discutibile – la trovate qui.). Se non siete ancora convinti, pensate al Narratore della Recherche: ce la mena per quasi 3.000 pagine sul fatto che è incapace di scrivere, e ovviamente insiste a dirlo scrivendo. Per sua e nostra fortuna non esistevano i podcast al tempo.
Arriviamo (finalmente) alla scoperta dell’acqua calda. Essendo un canaro in purezza frequento quotidianamente parchi, aree cani, cani e padroni di cani. Non perché piaccia me, ma perché piace a lei, la mia cana. Frequentando questo variegato universo tra le molte altre cose scopro che Argo è un nome popolare. Non importa la razza, il meticciato e neppure la mole. Argo piace un sacco ai padroni di cani maschi. Detto fra noi avrei preferito farmi il Cammino di Campostela sulle ginocchia piuttosto che chiamare il mio cane Argo; piuttosto Luigi, Arturo o Vercingetorice. La scelta del nome Argo racchiude la pretesa (la presunzione) di una devozione affettiva totale e imperitura che il più delle volte è immeritata: gli affetti non sono scontati e anche con il tuo cane te li devi guadagnare.
Ieri tra un Argo e l’altro m’è tornato in mente l’archetipo, l’Argo coperto di zecche, disteso sul letame per l’incuria dei servi, che riconosce Odisseo dalla voce. Non è indispensabile amare i cani per godere della bellezza di questi versi. Come una volta sapevano anche i piccini delle scuole medie, l’episodio si conclude con la morte: “E Argo, che aveva visto Odisseo dopo vent’anni /ecco, fu preso dal Fato della nera morte”. Aveva visto Odisseo dopo vent’anni, dice il poeta. E quindi di anni doveva averne qualcuno di più, diciamo almeno ventuno. Il tempo necessario e sufficiente per stabilire un legame profondo con il padrone. Non serve scomodare Lorenz e la sua teoria dell’imprinting, basta essere (essere stati) canari e/o gattari per sapere che i legami con gli animali rispondono alla stessa chimica delle Affinità elettive, alla stessa grammatica delle relazioni amorose, alla stessa logica dei rapporti sanamente simbiotici: richiedono disponibilità e tempo. Ci vuole tempo per imprintarsi l’uno con l’altra, l’uno con l’altro, l’uno col tutto.
Ventuno anni sono tanti per un cane. Un’enormità per un cane di media taglia come Argo. Un’età incredibile per un cane di deuemilacinquecento anni fa quando non esistevano vaccini, né antiparassitari, né cucce comode e calde. Il geniale assemblatore che trasformò le leggende cantate dai rapsodi in quel diamante splendente che chiamiamo Odissea ne era senza dubbio consapevole, come insegna l’Auerbach in “Mimesis”. Sapeva che i cani, particolarmente quelli sottoposti alle fatiche della caccia, non vivono a lungo. Ma saggiamente aveva intuito che l’episodio di Argo non solo avrebbe superato d’un balzo lo steccato dell’incredulità, ma avrebbe mosso a compassione anche i cuori di pietra.
Così, come gli abbracci di Odisseo svaniti nel nulla ci persuadono che abbia realmente incontrato la madre nell’Ade, così lo sfinito riconoscimento di Argo ci dà contezza che sì, quel mendicante cencioso è davvero Odisseo, l’uomo la cui voce sonora mandava parole simili a fiocchi di neve in inverno.
La morale di questa storia è che abbiamo bisogno di storie. Sono loro che ci hanno resi umani. Abbiamo bisogno di grandi e grandissime storie, di grandi e grandissime finzioni: scoperte da piccoli ci accompagneranno per il resto della vita. Le pozioni magiche che ci salveranno dalle menzogne del potere.