“E io sono un lettore edonista; io, nei libri, cerco emozioni”. Affermazione che ritorna più volte in “Sette sere”, volumetto adelphiano dedicato a un ciclo di conferenze tenute nel 1977. Naturalmente non è del tutto vero, come spesso accade in Borges. La sbalorditiva erudizione su cui poggia l’altrettanto straordinaria invenzione di scrittura dall’argentino più inglese che si conosca, nasce da lì, o meglio da loro. Un corto circuito che mi fa venire in mente “Produzione di merci a mezzo di merci” laddove “la produzione viene considerata da Sraffa come processo circolare in cui lo stesso tipo di merci appare sia tra i mezzi di produzione che tra i prodotti, anziché come un processo che comincia «con fattori della produzione» e finisce con beni di consumo”. Sostituite “merci” con “libri” e il gioco è fatto, come insegna lo stesso Borges.
Edonista o meno, quello che considero tra i più grandi dei grandissimi del Novecento regala al pubblico delle conferenze – non oso immaginare quanto consapevole della fortuna occorsagli – il dono della lettura. Come accade ai quadri che teniamo appesi sulle pareti di casa, le opere destinate a procurare emozioni finiscono per essere scontate al punto di risultare invisibili; così, letti per obbligo – o, peggio, per dovere culturale – i grandi libri, opere che con la loro esistenza giustificano la nostra presenza in questo mondo, scompaiono come lacrime nella pioggia. Borges scrivendo ci insegna a leggere. E noi leggendo corriamo il rischio di essere un po’ meno spregevoli di quanto potremmo essere.