“Praga, poesia che scompare” è un’operazione editoriale che commentatori più disinibiti definirebbero con spiccia metafora “grattare il fondo dei cassetti”. Com’è noto, Milan Kundera si è da poco accomodato nella bara; e com’è altrettanto noto, l’attimo editoriale (il nano-secondo che segna il passaggio tra la scomparsa di un autore e l’oblio della sua opera) va colto con stessa prontezza con cui al CERN acchiappano le particelle.
Diciamo che, Calasso o non Calasso, in Adelphi sono abilissimi anche in questo. E che comunque 12 euro, il costo di uno spritz e mezzo, il volumetto li vale tutti. Il primo saggio “Praga, poesia che scompare” ricorda a noi comodi occidentali al di qua del muro la sparizione di una cultura unica. Correva il 1968 quando le truppe sovietiche invasero la Cecoslovacchia. Fine del mondo che aveva generato Kafka, Hašek e Janaček, gli artefici dei “tre pannelli del quadro dell’inferno futuro: labirinto burocratico, idiozia militare, disperazione concentrazionaria”.
Milan Kundera per salvare la pelle e la libertà del dire era fuggito in Francia e riparato a Parigi. Non male direte, in effetti tra i migliori esili che la storia ricordi; ma pur sempre una fuga, un abbandono, una perdita. La stessa mutilazione che ha subito il mondo boemo (Kundera ama chiamare Boemia la sua patria) con l’occupazione nazista prima e la piallatura sovietica poi.
Tornando a “Praga, poesia che scompare”, si tratta di vecchi testi (il grattare il fondo dei cassetti) già pubblicati in parte o in toto. Non importa. Il secondo capitoletto del libriccino s’intitola Ottantanove parole (le più significative e sofferte) dall’autore. Non ricordo se già pubblicato in “L’arte del romanzo” oppure in “Un occidente prigioniero”, contiene una parola che vale da sola più di un multiplo dei 12 euro del prezzo di copertina. La voce è “comicità”. Sono poche righe, le incollo qui sotto. Leggetele con attenzione. Dopo averle lette, vendete al Libraccio tutte le interpretazioni del genio di Kafka di impronta strutturalista, postmodernista, decostruzionista, simbolista, messianica, esoterica, mistica, talmudica o cabalistica che ingombrano i palchetti della vostra biblioteca. Di colpo – per quanto raffinate e dottissime – vi sembreranno fesserie. Eleganti, ma pur sempre fesserie. Perché Kafka è essenzialmente un autore comico. Cos’è il comico e come distinguerlo ce lo insegna Kundera.
COMICO
Offrendoci la bella illusione della grandezza umana, il tragico ci consola. Il comico è più crudele: ci rivela brutalmente l’insignificanza di tutto. Suppongo che tutte le cose umane abbiano un aspetto comico, che in certi casi è di solito noto, ammesso, sfruttato, in altri casi velato. I veri genii del comico non sono quelli che ci fanno ridere di più, ma quelli che svelano il lato ignoto del comico. La Storia è sempre stata considerata un territorio esclusivamente serio. Ma c’è il comico ignoto della Storia. Come c’è il comico (difficile da accettare) della sessualità” (Milan Kundera, Ottantanove parole)
PS
Anche qualche altra parola delle restanti ottant’otto è parecchio interessante. “Europa”, ad esempio. Noi europei dell’Ovest che viviamo svagati con il culo nel burro (nel peggiore dei casi margarina) non dovremmo scordarla.