Chi lo getta via non è figlio di Maria

By on Mag 6, 2024 in Comunicazione

Michele Serra, rispondendo al mio commento sulle patatine sacrileghe, confessava di non ricordare i brand delle pubblicità. Le storie sì, ma non i nomi dei prodotti. Accade a sacco di persone ed è l’ur-cruccio dei pubblicitari. Nonostante tutti gli strumenti di indagine di cui dispongono (pre, post e pure durante) misurare a priori l’efficacia di un piano media è praticamente impossibile. Così ci si rassegna al fatto che una quota consistente dell’investimento (un terzo, metà, due terzi?) finirà nel cesso e non sapremo mai quale; come se una buona metà della folla in piazza San Pietro all’ora della benedizione papale fosse composta da pastafariani o da gente capitata lì per caso.

Pensavo a tutt’altro, forse all’anca di Sinner che mi ricorda Giacobbe alle prese con l’angelo o forse distratto da Madeleine che strapazza la bottiglia vuota della Ferrarelle, quando sullo schermo compaiono le prime immagini di una pubblicità mai vista prima… fotografia e luci perfette… voce fuori campo da Nastro d’Argento… scenografia che Dante Ferretti scansate; soggetto che anche Suso Cecchi D’Amico ne sarebbe fiera, giusto un piccolo errore di concetto di cui vi parlerò dopo.

La campagna è firmata dalla Fondazione Barilla. Non pubblicizza un prodotto e non promuove alcuna vendita. Raccomanda in modo affettuoso di non sprecare il cibo proponendo la consultazione di una guida (100 FOOD FACTS Pillole informative utili e comprensibili per portare nelle nostre vite dieci anni di studi scientifici sulla relazione tra cibo, persone e pianeta) inviata gratuitamente.

Spreco alimentare? Per saperne di più, per comprendere le ragioni della campagna Barilla, faccio la rapida ricerca che grazie a google chiunque può compiere, e scopro che in Italia lo spreco alimentare casalingo nel 2024 è ogni giorno di circa 81 grammi a testa: l’8,05% di spreco in più rispetto a un anno fa. 290 euro di costo l’anno a famiglia. Continuo a leggere e scopro che si spreca di più nelle città e meno nei piccoli centri; i “grandi sprecatori” sono le famiglie senza figli e le persone a basso potere d’acquisto per un valore complessivo di oltre 13 miliardi di euro. Paradosso nel paradosso: secondo le ricerche chi si dichiara “povero” non solo mangia malamente ma anche spreca di più (+17%). La minor disponibilità economica costringe infatti ad acquistare cibo più facilmente deteriorabile e a ridosso della data di scadenza. Si contano oltre 5 milioni 674 mila poveri assoluti in Italia. Lo dice il “Rapporto 2023 su Povertà ed esclusione sociale in Italia di Caritas”. Persone che mangiano male, si curano peggio o non si curano affatto, costrette a sprecare il cattivo cibo di cui possono disporre. Un crimine, prim’ancora che un disastro economico e sociale. Uno scandalo nel paese che si vanta d’essere la seconda potenza manifatturiera d’Europa.

Qualche riga sopra ho affermato che la campagna della Fondazione Barilla non intendeva vendere alcunché. Non è vero. La finalità di tutte le campagne pubblicitarie – belle, brutte, sublimi o ributtanti – è la vendita. Lo è per statuto ontologico. La Fondazione Barilla vende la merce più nobile che ci sia: il suo nome è reputazione. A conferma, il claim in home page recita: “La nostra Fondazione vuole promuovere comportamenti responsabili e scelte alimentari sane per un concreto cambiamento nella società”. Sì, avete capito bene: il brand Barilla si è dato la missione di cambiare il mondo. Non ho la più pallida idea se ci riuscirà o meno, se davvero convincerà qualche milione di persone a trattare con più rispetto il cibo che mangiano e quindi anche sé stessi; tuttavia trovo straordinario che nel pidocchioso panorama italiano, nel paesello – dove pur di far crescere di qualche punto il sell-in – una marca di patatine punti sull’abusatissimo giochino di preti e suore maliziosi, un’azienda scelga di parlare in modo autentico di sostenibilità e di cura del mondo.

In questi ultimi vent’anni crimini e storture dell’economia hanno profondamente minato la fiducia delle persone nel capitalismo globalizzato. E’ il tema dell’ultimo saggio di Martin Wolf: “La crisi del capitalismo democratico” (Einaudi). Per ora mi sono limitato a leggere la sinossi che così recita: “…i limiti strutturali e gli errori della politica hanno messo in discussione la nostra fede nella democrazia liberale. Il legame radicato e diffuso tra libero mercato e libere elezioni è vicino al punto di rottura. Mentre monopoli vastissimi dominano consumi e scelte di vita, entità statali che rifiutano i valori democratici controllano pezzi giganteschi del mercato globale. Tutto sembra concorrere alla crisi finale del capitalismo democratico, quel delicato equilibrio tra capitale e politica, tra ricchezza e potere che ha caratterizzato gli ultimi decenni di storia dell’Occidente. Ma, argomenta Martin Wolf, firma di punta del Financial Times e una delle voci piú autorevoli dell’economia mondiale, il capitalismo democratico è ancora, pur con le sue fragilità e le sue ombre, il sistema migliore per garantire il benessere del genere umano”. Ecco, il “caso” Barilla mi pare un eccellente esempio di quanto potente e trasformativo sia il capitalismo democratico, di come sia possibile coniugare libertà e crescita economica, benessere sociale e profitto. Vuoi vedere che stavolta pure Michele Serra ricorderà il nome del brand?

PS

Stavo scordandomi di quello che ho definito un “piccolo errore di concetto” dello spot. Giunti al cuore del plot il padre, uomo di mezz’età, sparecchia la tavola; mentre sta per gettare il cibo avanzato nella spazzatura, la regia affida alla figlia prepubere il compito di arrestarne il gesto riponendo delicatamente gli avanzi in una ciotola da frigo. Ovvero, ciò che fa o farebbe qualunque umano normodotato. Quello che non torna è perché mai sia affidato proprio alla figlia prepubere dell’adulto insensato il compito di insegnare quella che con linguaggio vagamente ciellino un tempo si sarebbe chiamata “buona pratica”. Reso cinico dall’eccessiva esposizione a pre e post puberi ineducati e vocianti, resto dell’idea che tocchi ancora a noi boomer il compito frustrante inutile di insegnare le buone creanze.

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