Ci conviene restare umili

By on Gen 8, 2024 in Scienze

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Bisogna voler bene a Facebook, o se non altro smettere di parlarne male. Forse è il caso di considerarlo per quello che è: una rappresentazione (tutto sommato fedele) del mondo reale. A conferma della sua utilità marginale non avrei incontrato “Cantonate. Perché la scienza vive di errori” (M. Livio, Bur) se non fossi inciampato nella bacheca di Silvia Bencivelli. Che non compie opere di carità, bensì usa Facebook per parlare di sè e promuovere il mestier suo. Come fan tutti, verrebbe da dire. Meno quelli che come me scrivono per il piacere di scrivere. (Nell’attesa che gli sfaccendati redattori del NYT si decidano ad affidarmi una lucrosa rubrica settimanale, mannaggia a loro).

Perché leggere Cantonate? Innanzitutto perché è scritto benissimo: non sempre, anzi quasi mai, chi sa di scienza sa anche scrivere di scienza; e poi perché il saggio di Mario Livio, ricco di note e riferimenti bibliografici più di un panettone gastronomico dell’Esselunga, spiega una volta di più cos’è la scienza e perché funziona. Di più: l’autore mostra un lato della scienza poco conosciuto. Non i successi, ma le cantonate, gli errori marchiani di cui cadono vittima anche i grandissimi come Darwin e Kelvin (sì, quello dei “gradi”) Pauling, Hoyle e Einstein.

Stiamo parlando del firmamento della scienza tra Otto e Novecento. Si potrebbe disquisire a lungo sulla natura e sull’entità delle singole “cantonate”. Alcune generate da arroganza e presunzione, come nel caso di Kelvin; altre da assenza di contributi indispensabili (la genetica mendeliana era totalmente sconosciuta ai tempi di Darwin). Nel caso di Einstein poi e della sua costante cosmologica prima postulata e poi ritratta, mi pare francamente forzato parlare di cantonata. Einstein restò legato a lungo all’idea di universo stazionario non per spocchia capricciosa, semmai per umiltà e per desiderio di unificare le due più grandi (e inconciliabili) teorie novecentesche: la relatività generale e la meccanica quantistica.

Proprio il tentativo di Einstein (il suo sforzo durò sino al termine della vita) conferma in modo magnifico la maestà della scienza: non è una fede, cresce negli errori e conquista nuovi traguardi grazie agli errori. Nasce da passioni, scontri, ambizioni, rivalità tra persone, prim’ancora che tra scuole e nazioni; il desiderio di primeggiare si sposa alla volontà di conoscere e diventa pensiero dominante e assoluto. E’ questa straordinaria ambizione la miglior garanzia possibile: un risultato inattendibile, una tesi non supportata da evidenze sperimentali replicabili, errori in buona o cattiva fede (ci sono pure quelli) non reggono il vaglio della comunità scientifica. Una competizione – essere i primi e i migliori – le cui ricadute tecnologiche e applicative hanno reso questo pianeta inospitale e selvaggio nel luogo più confortevole dell’universo sinora conosciuto.

Chi fa scienza ad alto livello gode come neanche Casanova in tutta la sua carriera di allegro e spensierato donatore di seme: una passione simile in tutto e per tutto alla più inesausta attrazione erotica; chi fa scienza trasforma un piacere dell’infanzia (indagare, costruire, congetturare, distruggere, ricostruire da capo) nel piacere della vita. Peraltro pure retribuito.

C’è un altro aspetto che non avevo considerato. Mario Livio (fateci caso, sembra il nome di un console romano) dati alla mano sostiene che le “cantonate” dei grandi e grandissimi portano in primo piano ciò che le indagini di psicologi e neurologici dimostrano (pare) in modo inequivocabile: anche le grandi menti cadono vittima di bias cognitivi. In buona sostanza, detto cioè con le povere parole di chi neurologo non è, i nostri lobi prefrontali frutto dell’evoluzione durata milioni di anni sono costruiti per dare una maggior rilevanza all’intuizione pura piuttosto che alla razionalità assoluta. E pare anche che l’intuizione – come l’orecchio totale dei grandi musicisti – sia la dote suprema dei più grandi fisici teorici.

Il libro si conclude con una (bellissima) citazione di quell’uomo meraviglioso che fu Charles Darwin. Non la ricopio perché è troppo lunga. Si tratta in buona sostanza di un bonario avvertimento: anche se abbiamo compiuto imprese intellettuali straordinarie, Darwin ci ricorda che “l’Uomo porta tuttora nella sua struttura fisica il marchio indelebile della sua modesta origine”. Insomma, ci conviene restare umili.

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