Feria d’agosto. Dunque, non si scrive. Si passeggia con la cana nei boschi. Si legge. Si rimugina quel che si è letto. Si pensa a cosa varrà la pena di leggere. Poi capita un articolo di quelli che i giornali pubblicano nella feria d’agosto. Per principio e per buon gusto non si dovrebbero leggere. Ma il titolo è traduttore/traditore e ci casco: “Il Ponte sullo Stretto viola il principio costituzionale di tutela del paesaggio”. Trattasi di un’intervista che Huffpost, gruppo Gedi, fa a Michele Ainis, costituzionalista, scrittore e pure editorialista di “Repubblica”, pure lei del gruppo Gedi. Una cosa in famiglia insomma.
Oltre ad elencare le note e stranote ragioni tecniche che ostano (osterebbero) la costruzione del Ponte, il costituzionalista cala l’asso: “Già in passato” afferma Ainis “ho espresso dubbi e perplessità in merito a questo progetto… oggi ritorno a ribadirli con la convinzione che esso contravvenga al principio costituzionale di tutela del paesaggio. Che ne sarà di quello specchio d’acqua, quando una cicatrice nera sfregerà l’orizzonte? Lo Stretto di Messina, oltre a essere parte integrante del patrimonio naturale, riveste anche un’importanza “glocale”, poiché, come ogni autentico bene culturale, affonda le sue radici in una specifica area geografica, rappresentandone l’anima e la cultura ma, al contempo, parla un linguaggio universale e appartiene all’intero pianeta. Lo Stato italiano, che ha appena riformato l’articolo 9 della Costituzione per rafforzare la tutela del paesaggio, con questa iniziativa ne diventa il primo nemico”.
Ma se la “cicatrice nera” non bastasse, ecco il jolly: “La nostra Carta sancisce che “la sovranità appartiene al popolo”. Si può, dunque, decidere tutto questo senza l’approvazione dei cittadini? Sarebbe quantomeno necessario un referendum consultivo, magari estendendolo a tutti gli italiani, visto che le grandi opere hanno sempre un rilievo nazionale e che si parla di una spesa prevista di 11 miliardi. Ma si sa: la Costituzione, povera donna, è sempre ignorata dai più”.
Oltre a non saperne una cippa di geologia, ingegneria civile e analisi del rischio ambientale, debbo pure ammettere imbarazzanti lacune riguardo a quella branca della filosofia che si occupa di conoscenza sensibile. Comunemente la chiamiamo estetica. Detto in spicci, definire cos’è il bello è altrettanto difficile quanto il suo contrario. Ma Ainis, costituzionalista, editorialista e scrittore, non ha dubbi: il Ponte sullo Stretto della sua città (Messina) sarebbe senza dubbio alcuno una “cicatrice nera”. Anche se lo progettasse Norman Foster in compagnia di Renzo Piano, giusto per dire. E poi c’è la questione della sovranità che appartiene al popolo; e della necessità, insiste Ainis costituzionalista, editorialista e scrittore, di un referendum consultivo, magari esteso a tutti gli italiani visto il rilievo e il costo dell’opera.
Non sono un fautore a priori del Ponte: il solo fatto che sia un fiore all’occhiello del Ministro delle Infrastrutture me lo rende sospetto; non so nulla di ingegneria, trasporti e logistica, salvo il fatto che conosco lo stato miserevole di strade e ferrovia calabro-sicule; privi di strutture di raccordo adeguate (per capirci: un sistema circolatorio senza vene nè capillari) che senso avrebbe aprire un’enorme arteria?
Tuttavia, come direbbe Charles Darwin osservando la famosa scimmia, è lo stile di ragionamento che mi fa specie: la valutazione estetica (il paesaggio, signora mia!) e il ricorso all’opinione del doxa. La prima ci lascia in balia della più incontrollata soggettività: cos’è bello, cos’è brutto, quando e per chi; il secondo corrisponde al rifiuto a priori dell’esercizio della leadership: quella cosa che detta in altre parole si chiama assunzione di responsabilità.
Negli ultimi trent’anni, per una ragione e per l’altra, nessuno in questo paese ha preso decisioni. Chi ci ha provato è stato impallinato a sale. In altre parole, nessuno ha esercitato l’arte della leadership. Secondo una definizione a mio parere perfetta, corrisponde al prendere decisioni che la più parte delle persone sanno essere necessarie anche se difficili e a volte persino dolorose. Senza leadership non avremmo costruito negli anni ’60 l’Autostrada del Sole (sapesse la quantità di “cicatrici nere” signora mia!”). Senza leadership (e un po’ di furfanteria) neppure la Tour Eiffel sarebbe mai stata eretta: la odiavano un po’ tutti, intellettuali e popolo. E per estensione, non credo che il Golden Gate sia stato approvato da un referendum popolare, come pure il ponte sospeso di Hålogaland, che mi piacerebbe un giorno attraversare. Mi spingo a pensare che (forse) niente delle cose che rendono le città europee luoghi dove il passato convive con il presente e la vita ha senso sarebbe stato progettato, finanziato, costruito.
Tra episteme e doxa chi vince? Temo che quando la logica glocal cara a Ainis incontra il pensiero nimby del “non nel mio giardino”, non solo i Ponti sugli Stretti ma anche le Tav Torino-Lione, le pale eoliche, le trivelle marine e qualsiasi altro intervento che abbia a che fare con quella cosa che si chiama modernità, diventino di fatto impossibili. Evidentemente la modernità ci da ansia. Forse come suo fratello futuro ci fa pure un po’ schifo.