Se amate i gialli “Il protocollo segreto” è il libro che fa per voi: gli elementi che concorrono alla scrittura di un noir avvincente ci sono tutti. Purtroppo l’assassino è svelato già nel sottotitolo: “Il patto Molotov-Ribbentrop e la falsificazione della storia”. Quindi niente suspense. In compenso anche il giallista più smaliziato apprezzerà lo sforzo titanico dei migliori ingegni sovietici nel far apparire credibile la più spudorata delle realtà parallele. Come nella “La lettera rubata” di Poe, tutti sanno che il documento segreto che attesta l’innominabile patto esiste. Tutti ne hanno letto delle copie. E’ persino facilissimo ipotizzare dove l’originale possa essere stato nascosto. Ma qualcuno, per mezzo secolo filato, non solo insiste nel negare la sua esistenza, ma accusa apertamente le nazioni occidentali di aver prodotto un falso per denigrare l’Unione Sovietica e la Grande Guerra Patriottica.
“Il protocollo segreto” (il Mulino editore) è opera di Antonella Salomoni. Inevitabile constatare come nel deprimente panorama della narrativa italiana ci siano storici capaci di trasformare la loro ricerca scientifica in racconto chiaro, esaustivo e persino avvincente. L’argomento – e ancor più la minuziosa indagine documentale prodotta dalla Salomoni – è potenzialmente più noioso della quarta sinfonia di Bruckner. Diciamo che questa scoperta (la bravura dei nostri storici) è un’ovvietà come lo è l’esistenza di un protocollo che sanciva la spartizione della Polonia e dell’Europa dell’Est tra URSS e Germania nazista. (Per tornare agli storici, Carlo Ginzburg è forse il miglior esempio di come si possa scrivere storia in modo avvincente, rigoroso e grazie a lui anche totalmente nuovo).
Poiché non è un giallo non corro il rischio di spoilerare. Dopo cinquant’anni di menzogne, silenzi e più o meno abile dezinformatzija, la verità viene sia pur faticosamente a galla. Il merito non va alla glasnost di Gorbaciov. Come i suoi predecessori esce malissimo da questa storia. Pur avendo “preso visione” del documento secretato (l’originale firmato e controfirmato dalle controparti) nega come un pinocchietto qualsiasi la sua esistenza. Contravvenendo tra l’altro pure alle regole interne del Politburo: in caso di apertura di un documento classificato ai massimi livelli di segretezza tutti i membri hanno il diritto di conoscerne il contenuto. Gorbaciov mente ripetutamente ai vertici del Partito e ai suoi più stretti collaboratori in modo ridicolo e infantile. Bisognerà aspettare Eltsin (che la Salomoni giustamente chiama El’cin) per conoscere la verità. Vengono aperti gli archivi e per colpire politicamente Gorbaciov la menzogna recitata per cinquant’anni diviene di dominio pubblico. Poi, come nelle fiabe di Andersen dove non c’è mai il lieto fine, giunge il tempo di Putin. Serrati gli archivi la narrazione prende nuovamente spunto dalla versione pubblicata nel 1948 con il titolo “I falsificatori della storia”, opuscolo di 80 pagine di cui ampi brani sono stati scritti di persona dallo stesso Stalin, in cui si incolpano le nazioni occidentali di voler infangare l’onore dell’Urss (ieri) e della Russia (oggi).
Epilogo
Anche se i fatti, come sosteneva lo scrittore ucraino Michail Bulgakov, sono la cosa più ostinata del mondo, il mirabile lavoro di Antonella Salomoni non servirà agli orfani di Stalin e neppure ai malati di antiamericanismo a priori. Ai fanatici, a chi campa di pane e ideologia, i fatti non interessano. Tuttavia, la cosa più incredibile non è tanto la cocciutaggine di queste persone, quanto l’alone di credibilità e persino di simpatia di cui nonostante tutto ancora gode l’Impero russo. Come si contano a milioni gli individui convinti che la Terra sia piatta, la Shoah un’invenzione dei “perfidi giudei”, la conquista della Luna propaganda della Cia, così ce ne sono altrettanti pronti a dare ancora credito alla più smisurata (e a quanto pare immortale) fabbrica di menzogne. Dal tempo dei “Protocolli dei Savi di Sion” immonda propaganda antiebraica approntata dalla polizia zarista, alle menzogne bolsceviche sulla politica, l’economia e la felicità dei sudditi sovietici, sino agli odierni crimini di Putin, nulla è cambiato nell’Impero russo: la falsificazione di ieri viaggiava sulla carta, oggi è sui social. Una sola spiegazione a parziale giustificazione: per milioni di persone sfruttate, oppresse, costrette all’indigenza estrema se non alla schiavitù, per anni la Russia sovietica ha rappresentato il sogno del cambiamento. La speranza che un altro mondo, e un altro modo di vivere, fossero possibili. Sappiamo da tempo che non era così. Ma sappiamo anche che i sogni sono duri a morire.