Gli italiani vanno pazzi per gli anniversari. In questi giorni ne scadono addirittura due, gli 80 anni di Lucio Dalla e Lucio Battisti. (Forse non è elegante usare il verbo “scadere”, più adatto allo yogurt o ai codici otp della banca, eppure questo mi paiono: scadenze da programmare con cura, la stessa con cui si preparano in largo anticipo i coccodrilli degli importanti che hanno raggiunto una certa).
A me degli anniversari non è mai fregato una mazza. Quand’ero giovane ed ero già in fissa con Mozart e il divino Marcel, mai mi sarei sognato di emulare Schroeder dei Peantus. Così come non riesco a sconvolgermi per la morte di un anzianissimo. Di solito gli anzianissimi hanno il vizio d’aver smesso da un pezzo di “essere ciò che erano stati”. Giusto per intenderci: Gino Paoli e la Vanoni a Sanremo, non sono uno spettacolo e neppure un’epifania. Sconvolgiamoci per i bambini morti annegati, sotto le bombe o svuotati da diarree curabili con 2 euro, semmai. Ma gli anzianissimi che vanno nel mondo dei più sono un fatto di natura non un oggetto di cultura.
Però gli anniversari dei due Lucio mi hanno dato l’occasione di leggere cose che altrimenti mai avrei letto. Come l’intervista a Mogol sul “Venerdì” di Repubblica del 3 marzo. Pezzo interessante che, per l’ennesima volta, fa chiarezza del rapporto tra i due. Detto per inciso, Mogol un baronetto di garbo, buon gusto e (palese) generosità. Tra le altre cose interessanti, Mogol parla anche dei suoi criteri compositivi, di come nascesse prima la musica e poi il testo, e del rapporto tra parola e musica nella canzone. A suo dire assolutamente paritario. Una questione che dalla “Camerata de’ Bardi” in poi ha generato milioni (miliardi) di pronunciamenti e di tesi.
Ora è necessario premettere che la mia ignoranza in tema musicale supera quella del ragionier Filini nell’uso dei congiuntivi. Ascolto come potrebbe ascoltare una bestia, distinguendo in “mi piace / non mi piace” come farebbe (come fa) qualsiasi imbecille di Amministratore Delicato di fronte a una campagna pubblicitaria di cui non comprende un acca ma che tuttavia si ostina a giudicare. Ascolto, possibilmente ad alto volume, e se mi piace godo. Punto. Le parole di Mogol mi fanno riflettere. Eppure mio malgrado continuo pensare, come insegnava Arbasino, che sarebbe stato meglio affidare il libretto della “Norma” a Leopardi invece che allo sciagurato Felice Romani. I versi che trasse dalla tragedia “Norma, ou L’infanticide” di Louis-Alexandre Soumet, oggi fanno ridere i polli mentre la musica è sublime. Sfido chiunque ad ascoltare la Callas in “Casta diva” restando indifferente. Ne concludo che in questo caso il testo è insignificante (rispetto alla grandezza della musica).
Mi spingo ancora più in là e vado a trovare il signor Monteverdi, genio assoluto. La sua musica è magnifica, straordinaria, commovente e potente. Si può dire in tutta onestà lo stesso dei testi? E quando la voce maschile intona per la quindicesima volta il verso “…e tu pastorella vezzosa” siamo davvero certi che il testo abbia la stessa importanza (lo stesso valore) della scrittura musicale? Forse se cantassero l’elenco telefonico di Pizzighettone per l’ascoltatore ghiotto e caprino come me cambierebbe poi molto davvero? Forse (forse) i soli testi insostituibili sono quelli delle tre opere italiane di Mozart. Probabilmente Lorenzo Da Ponte, il librettista, fu contagiato dal genio totale di Wolfango Amedeo e per questo riuscì a scrivere testi che anche oggi paiono calzanti come un abito di (grande) sartoria.
Finalmente arrivo a Mogol. Più ci penso, più mi convinco che dei due il genio è lui. Che “Emozioni” sta in piedi (e corre impetuosa) dopo tutti questi anni per le parole. Che tutte o quasi le canzoni del primo Battisti volano sui testi di un poeta. Perché Mogol, con buona pace dei boccaloni che mangiano pane industriale e Alda Merini, è un poeta. E pure grande. La controprova? Alzi la mano digitale di chi ricorda le parole (e la musica) del periodo Battisti-Panella; alzi la mano chi oggi canticchia i motivi di “Hegel” o “Don Giovanni”. La produzione del secondo Battisti la chiamano avanguardia musicale. Ma anche John Cage, giusto per calare un carico, è avanguardia. (E anche qui, alzi la mano con onestà chi lo ascolta, chi lo gode, chi ne gode del suo lavoro).
Mogol ha raccontato un’epoca, la nostra di noi boomer. Ma non solo. Le incertezze, il disagio, gli inciampi, il desiderio, la nostalgia, il dubbio sono senza tempo. Sono fuori dal Tempo, come direbbe quello là che di frasi musicali se ne intendeva e parecchio.