E’ certamente colpa dell’Ucraina se l’operazione militare speciale è divenuto argomento persino più stucchevole del divorzio Blasi-Totti sulle cui vestigia, sarebbe forse meglio dire corna, l’esangue giornalismo italico inzupperà il biscotto negli anni a venire. E’ colpa dell’Ucraina, il presuntuoso paese che rifiuta di arrendersi, se nonostante il caldo e i gravi problemi che ci affliggono quotidianamente al cui confronto le sette piaghe d’Egitto sono un bicchierin di giulebbe, ci ritroviamo nostro malgrado costretti a pensare all’Europa.
Europa, entità astratta fino all’altro ieri, data per scontata come tutte le cose che crediamo di possedere per diritto divino e decreto imperiale (clima temperato, giusta quantità di precipitazioni atmosferiche, sale sulla tavola, insalata nell’orto…) di cui scopriamo l’importanza solo quando ci vengono a mancare, come insegna la fiaba del Re scemo e del quesito posto alle tre figlie (quanto mi ami figlia mia?). E’ forse a causa di questo sentimento, al senso di colpa che l’orgoglio ucraino alimenta nei seguaci della Chiesa del Quieto Vivere, il motivo per cui quel disgraziato paese sta sulle balle a un numero sempre più grande di compaesani?
Il pensare all’Europa per come sarebbe potuta essere ma così non è stato è coinciso con la lettura di “Un occidente prigioniero”, scritto nel 1983 dal più che profetico Milan Kundera. L’autore cecoslovacco accusa l’Occidente – quindi in primo luogo noi europei occidentali – d’aver dato per scontato che Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia appartenessero di fatto e (peggio ancora) di diritto all’universo sovietico, e di aver assistito per decenni con apatica indifferenza alla cancellazione di questi paesi dalla carta europea. Inutile dire che Kundera ha tragicamente ragione. Per dirne una, la mia generazione è ripetutamente scesa in strada per protestare contro i missili Cruise, mentre le testate nucleari degli SS20 sovietici puntati contro Berlino, Parigi e Londra erano considerate presenze dovute.
Mentre l’Ucraina in quanto notizia scivola ogni giorno un poco più giù nelle home dei giornali e i coniugi Zelens’kyj si beccano i cachinni della plebe digitale per via delle foto su Vogue (“ma come si permettono, ma chi credono d’essere, Illary e Francesco?”) il pensare all’Europa per ciò che sarebbe potuta essere ma così non è stato si arricchisce di un nuovo capitolo: l’ultimo lavoro di Francesco M. Cataluccio, la cui “M” non ho mai capito per cosa stia, forse aggiunta per stanchezza come accadde al Cipolla, che da Carlo divenne Carlo M. per via di un disguido anagrafico capitato negli States di cui, narra la leggenda, non riuscì più a liberarsi.
Sia come sia, dobbiamo essere grati a Francesco M. Cataluccio per via della conoscenza del mondo al di là della cortina di ferro e del garbo squisito con cui lo racconta: le persone che sanno e sanno di sapere, sono il più delle volte di insopportabile arroganza; a questo proposito ricordo la presentazione di un suo libro che organizzammo a Milano, una serata illuminata dall’intelligenza di quella che un tempo si chiamava civiltà delle lettere.
Dell’ultimo lavoro di Francesco Cataluccio avevo scritto a proposito della difficoltà di avere una copia del suo libro per via del suicidio del nostro sistema distributivo. Dopo le edicole, luoghi di luce nel buio dei deserti cittadini, è tempo di cantare il de profundis per le librerie: morti i librari, quelli che avevano una sia pur vaga idea di ciò che vendevano, sostituiti da commessi la cui abilità consiste nello strusciare il lettore laser né più né meno delle pur valide cassiere dell’esselunga, adesso le librerie sono addirittura incapaci di far arrivare in tempi ragionevoli le merci che il mio amico Bezos consegna dall’oggi al domani.
Tornando all’amato Cataluccio, diciamo subito che il titolo – “Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania” (Humboldt Books) – chiarisce immediatamente che non c’è un lieto fine. Se non altro per via del fatto che la “nazione ebraica” – cuore pulsante e pensante di quelle regioni d’Europa – è stata spazzata via dalla furia nazista e dalla complicità di (molti, pochi?) antisemiti e collaborazionisti. Esattamente ciò che accadde anche in Ucraina, in Bielorussia, in Polonia, in Ungheria. “Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania” è una guida. Anche se qualche figura non manca, non è esattamente il genere preferito da chi consulta le Lonely Planet (“Tunner, noi non siamo turisti, siamo viaggiatori” “Ah, che differenza c’è?” “Un turista è quello che pensa al ritorno a casa fin dal momento che arriva”– Il Te nel deserto, B. Bertolucci).
Insomma, pur non essendo del tutto privo di annotazioni culinarie, il lavoro di Cataluccio è una guida culturale che ci conduce nella memoria di un angolo d’Europa. Tra i molti riferimenti spicca in particolare la figura del poeta Czesław Miłosz. Non sapevo quasi nulla di Miłosz sino al giorno in cui bighellonando tra i libri di una bancarella non m’imbattei ne “La mia Europa”. Dopo l’incontro totalmente fortuito con quello che ritenevo essere “solo” un poeta (sic) lessi tutto il leggibile dell’uomo che incuteva ammirazione e timore e soggezione alla grande (grandissima) Wisława Szymborska.
Copio/incollo dal risvolto di copertina di quest’ennesima invenzione editoriale che dobbiamo all’Adelphi di Calasso: “L’idea di questo libro è nata nel solaio di una casa sulle rive del lago di Ginevra. Camminando su tavole di legno scricchiolanti o su pavimenti di mattonelle rosse un po’ consunte, davanti a vecchi cassettoni dipinti, Miłosz sentì che qualcosa gli stava parlando dal suo passato. Ma subito si accorse di essere muto. «Il profumo di quel solaio mi era familiare, lo stesso dei nascondigli della mia infanzia, ma il paese dal quale provenivo era distante e, simile a un diavoletto che scatta dalla scatola, io mi muovevo secondo le leggi di un meccanismo impenetrabile per i miei amici ginevrini». Che cosa di preciso poteva significare la parola Lituania per i suoi ospiti? E che cosa sapevano in quella Europa idilliaca di quell’altra Europa, dove Miłosz aveva trascorso decenni di una vita segnata da una successione di orrori dinanzi ai quali «la parola non può non essere perdente»? Così Miłosz pensò a un libro che lo obbligasse a svelare almeno una parte di quell’«amaro sapere incomunicabile agli occidentali» che si era accumulato in lui; un libro che non fosse soltanto di memorie personali, ma geografiche: il fantasma possente di certe terre che avevano fatto parte del Granducato di Lituania, quando esso era una potenza ben maggiore di quella russa, avrebbe continuato a mostrarsi attraverso le vicende della sua «vita di poeta», e ogni scena si sarebbe prolungata in un cespuglio di digressioni storiche. Con umiltà, usando i propri sentimenti quasi come pretesto per evocare quel fantasma di popoli, boschi e vicoli, Miłosz ha scritto un libro prezioso, il primo forse che dovrebbe prendere in mano chiunque voglia sapere qualcosa di quella immensa Europa «sequestrata», dove è d’uso ormai cancellare la storia, il tempo, i nomi, ma dove la complessità e gli intrecci delle civiltà erano tali che «pressoché ogni uomo che si incontrava era diverso dall’altro, non per una sua peculiare specificità, bensì quale rappresentante di un gruppo, di una classe o di un popolo». Chi si è trovato a vivere, come Miłosz, in quelle terre durante la prima metà del secolo ha dovuto forzatamente attraversare tutte le trappole e le tensioni dell’epoca, e ogni volta nella loro forma estrema. Un dolente, incompreso sorriso appare in un tale uomo quando l’Occidente vuole sorprenderlo o sconvolgerlo. Perché ogni volta si tratterà, al più, di una ripetizione attenuata di qualcosa che laggiù è già avvenuto”.
Mi scuso della lunga citazione. La ritengo utile perché nelle pagine di “Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania” troverete lo stesso sentimento espresso da Miłosz elaborato dalla di coscienza di chi, per sua e nostra fortuna, la propria Itaca non l’ha ancora perduta. Leggendo viaggerete nella piccola nazione dai grandi boschi, scoprirete il pittore Mikalojus Konstantinas Čiurlionis (ebbi la fortuna di vedere una mostra a Milano qualche anno fa) le spiagge della Curlandia e il barocco delle chiese sopravvissute ai nazisti prima e ai sovietici poi. E concluderete con inevitabile ovvietà che Lituania, come pure Lettonia ed Estonia, altro non sono che regioni non particolarmente fortunate di quella cosa che chiamiamo Europa.
Ma quindi cosa vuol dire Europa? Secondo Kundera, il massimo di diversità nel minimo spazio. Definizione perfetta: nazisti, bolscevichi, preti e tagliagole assortiti hanno fatto del loro meglio per annullare ogni manifestazione di difformità. Ma Kundera, come quasi tutti gli intellettuali, dà per scontato che la parola diversità significhi trasformare in atto le potenzialità umane, mentre per zia Lina che sta a Grottaferrata “diversità” sono i froci che si baciano in pubblico e il nero, magari pure musulmano con moglie velata e millanta figliolini al seguito, che ruba il lavoro e minaccia “l’integrità etnica”. Ma allora per gli dèi dell’Olimpo, come si fa a spiegare che la diversità è il più grande dei valori, anzi è il valore in sé?
Se fosse possibile trattare l’Ucraina come un brand, magari passando dal Dash (massimo della fisicità analogica) a “Chiara Ferragni” (massimo della fluidità digitale) le cose sarebbero semplici. E ovviamente sbagliate. Eppure, se applicassimo alla politica le regole dell’arte della distinzione, quelle stesse che utilizziamo con inconsapevole saggezza nel corso della nostra esistenza, regole basate su coppie concettuali banali sino all’ovvietà (esempio: caldo / freddo, dolce/amaro, dolce/salato, alto/basso, morbido/duro, bello/brutto, costoso/economico…) comprendere diventerebbe facile come inforcare la bicicletta anche dopo anni che non lo si fa più. E quindi, ragionando in negativo, se non posso scrivere sciocchezze in libertà come sto facendo qui ora, non è Europa; se non posso andare dove voglio, con chi voglio, quando voglio, non è Europa; se non posso baciare chi voglio, quando voglio in (quasi) ogni luogo, non è Europa; se non ho diritto di rappresentanza (anche se chi mi rappresenta è persino più scemo di me) non è Europa.
Purtroppo in questa storia agli ucraini tocca la parte più sgradevole. Sono la voce della coscienza che alimenta insopportabili sensi di colpa: non solo prendono le mazzate dal (secondo? terzo?) esercito più potente al mondo, ma fanno pure la figura del saccente Grillo parlante, quello che il povero Pinocchio è costretto a spiccicare sul muro a martellate. (Questi fessi di ucraini, inemendabili romantici persino peggio dei loro vicini polacchi, invece di starsene tranquilli all’ombra della grande Russia sono disposti a farsi ammazzare pur di vivere come viviamo noi. Roba da matti).