Sono agli ultimi paragrafi di “Stalingrado”. Tra le molte, spunta pure la domanda se abbia ancora senso leggere un romanzo di 884 pagine. Me lo chiedo a causa dell’affettuoso sfottò di un documentatissimo amico che rifiuta di procedere oltre quota 200; e ancor più per via del post di un noto esperto di web, uno di quelli bravi, che sentenziando riguardo la lunghezza di un testo letterario stabiliva che era il caso di fermarsi prima delle 300 pagine, evidentemente convinto che la quantità vada a scapito della qualità. A me proustiano di stretta osservanza, è parsa una tesi abbastanza imbecille. Succede che mi sono beccato una censura prima, e l’accusa di maleducazione poi. L’amico che sfotte ovviamente non crede a quello che dice; il sagace esperto di web invece sì.
“Stalingrado” è l’ultima opera di Vasilij Grossman pubblicata in Italia. Nato in Ucraina a Berdyčiv da famiglia ebrea, Grossman è il giornalista che voleva servire il suo paese nell’Armata Rossa. Si offre volontario ma viene scartato perché cieco come una talpa. Non contento di rischiare la vita a Stalingrado come corrispondente di guerra per il quotidiano dell’esercito “Stella Rossa”, compila ogni giorno un diario sfidando i rigori della NKVD, l’occhiuta polizia politica di Stalin. La battaglia di Stalingrado darà vita al romanzo omonimo e poi al seguito, “Vita e destino”, mentre i diari diverranno “Uno scrittore in guerra” il resoconto di mille giorni di guerra trascorsi sui fronti della “grande guerra patriottica dell’Armata Rossa” come, in Unione Sovietica ieri e in Russia oggi, amano chiamare la guerra all’invasore nazista.
Perché dunque a mio avviso bisogna leggere un romanzo del secolo scorso che i suoi anni li dimostra invece dell’ultimo vincitore del penultimo premio letterario? Vasilij Grossman è stato un comunista vero, per di più nella variante bolscevica: nella mistica della creazione dell’uomo nuovo ha creduto davvero. Ma pur cantando le lodi del lavoro di fabbrica che libera e trasforma gli esseri umani, ha il coraggio di sostenere tesi al limite della follia: “Chi scrive ha il dovere di raccontare una verità tremenda, e chi legge ha il dovere civile di conoscerla, questa verità”. E di tradurla nella pratica del suo lavoro di cronista prima e di narratore poi. Facile (facilissimo) a dirsi e a farsi se il mestiere lo pratichi a Londra, a Parigi e persino a New York negli anni del maccartismo più osceno; non altrettanto se sei un giornalista sovietico che vuole raccontare ciò che vede nell’impero di Stalin: la guerra, la fame, la disperazione, il coraggio, la viltà, l’eroismo, la meschineria, la grandezza indifferente della natura, la miseria e la nobiltà degli uomini.
Ci sono scrittori destinati a diventare amici del lettore oltre che maestri. E’ il loro tono di voce che, insieme alla sapienza della scrittura, rende le loro parole familiari e affettuosamente vicine. Dostoevskij è un maestro, ma non sarà mai un amico. Tolstoj e Grossman invece lo sono. L’accostamento è dovuto: non tanto perché Grossman sia stato definito “il Tolstoj” della nostra epoca e la sua dilogia la “Guerra e pace” del Novecento, quanto per il coraggio che entrambi mostrano nella ricerca della verità e per la fermezza con cui consapevolmente si pongono contro il potere dell’autorità.
Prima di parlare di “Stalingrado” bisogna fare un passo indietro, anzi più di uno. Anche a rischio di cadere in uno di quei paradossi della letteratura che avrebbero deliziato quel sadico di Borges. La cosa è presto detta: “Stalingrado” è stato scritto e pubblicato prima di “Vita e destino” e di “Tutto scorre” e sino a pochi mesi fa il lettore aveva avuto accesso solo a queste opere. Andando per le spicce, il guaio è che mentre “Vita e destino” è un capolavoro assoluto, non è possibile affermare altrettanto per “Stalingrado”. Il lettore che come me ha avuto la fortuna di incontrare prima la seconda opera della dilogia e ha affrontato con disinvoltura le prime 100 pagine proseguendo la lettura, fiducioso che prima o poi avrebbe compreso il ruolo dei vari personaggi, ha riconosciuto immediatamente nel romanzo il capolavoro assoluto, e in Vasilij Grossman un amico e un maestro.
Altri meno fortunati seguendo la logica di produzione rischieranno di arenarsi sulle rive scoscese delle 884 pagine di “Stalingrado”. Se parecchi capitoli sono di straordinaria fattura (su tutti l’attesa dell’attacco nazista, le scene del bombardamento aereo, e più in generale le descrizioni delle battaglie) è impossibile non notare come il gigantesco romanzo sia mortificato non solo dalle periodiche riscritture richieste dalla censura ad ogni nuova edizione, quanto soprattutto da pagine scritte con l’inchiostro della propaganda: il lavoro massacrante in miniera e in fonderia inteso quale strumento della felicità umana; il mito del gigantismo di fabbrica, l’estasi della fatica e del sacrificio compiuti “liberamente” dall’uomo nuovo sovietico; l’esaltazione del realismo nell’arte teorizzata in paragrafi che calano nella narrazione come il piombo dei dettati artistici zdanoviani.
In “Vita e destino”, terminata nei primi anni ’60, nell’età del supposto disgelo kruscioviano, non c’è più nemmeno la polvere dell’ideologia e neppure l’ombra di una postura propagandistica. Grossman è un altro uomo rispetto all’autore di “Per una giusta causa” (titolazione della prima edizione di “Stalingrado”). Ha visto affossare la sua inchiesta sui crimini contro gli ebrei e la censura di quel “Comitato antifascista ebraico” a cui avevano aderito personalità del calibro di Einstein. Il dittatore aveva bisogno di un nuovo nemico, interno questa volta, per giustificare la presa della sua morsa. E gli ebrei sono le vittime ideali anche per Stalin.
Grossmann è un altro uomo e, di conseguenza, un altro scrittore. In “Vita e destino”, naturale prosecuzione di “Stalingrado”, non c’è più nemmeno un grammo di disponibilità alla finzione, al compromesso, alle menzogne necessarie per sopravvivere. Scrivendolo Grossman compie il passo che trasforma il suo antifascismo in anti-totalitarismo: ha compreso, come scrive Francesco Cataluccio, che la responsabilità della fondazione di uno Stato onnipossente e illiberale quale è l’Unione Sovietica è da attribuire a Lenin prima che a Stalin, comunque da lui paragonato a Hitler. “Vita e destino” non sarà mai pubblicato in Unione Sovietica. Il suo autore morirà senza sapere che il lavoro della sua vita verrà finalmente stampato in Occidente. Il KGB confisca non solo il manoscritto “ma anche le carte carbone e le minute, e perfino i nastri della macchina per scrivere… Gli occhiuti burocrati sovietici hanno intuito subito quanto fosse temibile per il regime”.
Perché dunque bisogna leggere “Stalingrado” nonostante gli affettuosi sfottò del mio iper-letterato amico? Va letto non solo perché precede “Vita e destino”, ma per lo stesso ottimo motivo per cui, ad esempio, è indispensabile leggere Moby Dick se si desidera comprendere qualcosa della formazione mentale della nazione americana. “Stalingrado” e tutta l’opera di Grossman narrano le infinite sciagure e le infinite sofferenze delle genti russe, la storia millenaria di un popolo sfortunato condannato alla non-libertà. Forse ci aiuterà a comprendere perché, di nuovo ancora una volta, il dispotismo russo ha ancora la forza di sottomettere un paese immenso e di schiacciare ogni dissenso.
O, più semplicemente, leggere Grossman ci aiuterà a comprendere l’immeritata fortuna di cui noi nel mondo libero continuiamo a godere. George Steiner, il grande comparativista scomparso recentemente, scriveva a proposito di Grossman: “Opere come Vita e destino eclissano quasi tutti i romanzi che oggi, in Occidente, vengono presi sul serio”. Poi, certo, è lecito scegliere di guardare Mara Venier in tv ed essere felici lo stesso.