E’ una certezza consolidata negli anni. Tuttavia, complice il digiuno imposto dalla pandemia, stavolta il botto è stato molto più forte. Tutta la città è un “Fuori-Salone” un tripudio che coinvolge anche gli ascensori della metropolitana che annunciano qualcosa che invariabilmente termina con design week. Milano è tornata. La più piccola delle grandi città europee, la sola che si possa attraversare a piedi tagliandola in due come un’anguria, è impavesata come una sposa neo-melodica, piena come un uovo con due tuorli di genti venute da ogni dove. (Sospetto che ci sia anche qualche russo, porello lui, nonostante le sanzioni: passeggiando la cana di sera si possono ascoltare le lingue del mondo)
Contrariamente al Salone-Salone, tradizionalmente riservato agli operatori professionali, il Fuori-Salone invade tutta la città in modo spesso incongruo se non del tutto abusivo; ancora un paio di edizioni e pure il pizzicagnolo all’angolo addobberà l’ingresso con il gonfalone del quartiere e il suffisso design district. Sparando alto, il pizzicagnolo perdonerà, non avremmo mai supposto che pure le meraviglie lanose di Loro Piana facessero parte della cultura del design; eppure basta passare davanti allo show-room di via Moscova scintillante di luce e di ospiti per comprendere che sì, anche qui è la festa.
Perché di festa si tratta. Che oggi dopo le tristezze del morbo si manifesta attraverso un’esplosione di vitalità, di energia, di voglia di fare, intraprendere, commerciare, far girare i daneè, come si diceva una volta. La riscoperta, il rilancio e ri-posizionamento gentrificante di quartieri un tempo sgrausi come Lambrate (per non parlar dell’Isola, “riposizionata” ormai da un pezzo) stanno alle varie week milanesi in un rapporto di causa-effetto biunivoco in cui l’una moltiplica l’impatto dell’altra e viceversa. E così, giusto per non saper leggere né scrivere, Milano è diventata (inaspettatamente?) una città per turisti, arricchita ma anche lordata dal turismo, anche quello spicciolo che il venerdì e il sabato sera cala a fiumi dalla verde Brianza nelle strade della movida.
Diciamo la verità: il fuori (Salone) è infinitamente più divertente del dentro. Da sempre i padiglioni nobili sono appannaggio dell’aristocrazia mobiliera: visitarli è l’equivalente di un dovuto pellegrinaggio nei luoghi della fede ma niente di più. Poi ci sono migliaia di esordienti, di new entry, di vorrei ma non posso e financo potrei ma non sono capace, la categoria più irritante che comprende le aziende che tengono i soldi ma non la capa per spenderli a modo. E l’orda d’oro di persone che paiono milioni, i suoni, gli stimoli, il rumore, il colore che, oltre a stroncare il campo dei cellulari come un terzinaccio vecchia scuola, ammazza l’incauto visitatore sprovvisto di Priorità&Obblighi: questo stand sì, questo, questo e quest’altro manco se mi pagano. Perché il Salone è come il Louvre o l’Isola dei musei a Berlino, impossibile vedere tutto in un giorno solo; e in ogni caso, proprio come nei grandi musei, non tutto vale la pena di essere visto.
Il Salone è per i professionisti, per chi compra, per chi vende, per chi disegna o spera un giorno di disegnare, foss’anche solo l’asse del cesso della zia Peppina. Il Fuori Salone è invece per tutti, per i coniugi e per gli amanti truffaldini, per gli studenti in gita, per donne e uomini e gender di ogni ordine, grado, orientamento gusto e tendenza. La miglior risposta al Patriarca Cirillo, quello con le vestine decorate in stile Dolce & Gabbana senza aver pagato le sacrosante le royalties.
Il Fuori Salone è un modello? La post-città diventa una macchina di comunicazione che produce relazioni affettive attraverso il più antico degli strumenti, l’emozione prodotta dallo stupore, ovvero l’inatteso augurato: ciò che si spera di incontrare e di esperire senza sapere quando né come e neppure attraverso cosa. Quell’eterno bisogno di stupefazione e meraviglia che spinge Odisseo a farsi legare all’albero maestro per ascoltare in sicurezza il canto delle Sirene. Quel gioco senza limiti e senza fine che, davanti all’ennesima installazione (scintillante, improbabile, provocatoria, citazionista, situazionista, emergenziale, catastrofista?) ti costringe a pensare che il barocco, proprio come i più sagaci tra i dinosauri si sono trasformati nelle specie degli uccelli, non sia affatto estinto ma, anzi, si ripresenti debitamente mascherato persino nell’epoca gloriosa del less is more. Che si tratti dell’eterno ritorno a cui alludeva quel signore che sussurrava ai cavalli?
Nel frattempo, tra un’istallazione e l’altra, reduci da un trionfale safari da Davide il fruttarolo che ambisce a divenire il Bulgari di via Canonica, chi s’incontra nella via dei cinesi? Scaglionata a spina di pesce, una pattuglia di anziani inossidabili militanti propone l’improbabile acquisto di “Lotta Comunista”. L’ennesima conferma che Milano, la più piccola delle grandi città europee, tutto accoglie, tutto digerisce, tutto trasforma.
Max, educatore cinofilo e dog sitter, ritratto in uno dei suoi tipici Fuori-Salone.