“Nessuna confusione è pari a quella di una mentalità semplice. (Francis Scott Key Fitzgerald)
Fateci caso, entrambi i capolavori dello sfortunato cantore dell’età del Jazz da cui ho tratto la citazione traggono origine da un equivoco. O meglio, dalla confusione generata dagli equivoci. Sia Jay, il protagonista de “Il Grande Gatsby” che Dick, lo psichiatra di “Tenera è la notte”, si consumano nell’impossibile impresa di ripetere il passato. Che è la più grande tra le tentazioni. (Quante volte abbiamo sognato di rivivere una situazione che ci ha visti sconfitti o addirittura umiliati, per aver modo di risolverla a nostro vantaggio?). I grandi personaggi – Jay e Dick lo sono – nascono necessariamente dalla crisi generata dalla confusione? Oppure è la confusione (emotiva, cognitiva, affettiva) la causa gli stati di crisi?
I “Venti ruggenti” (altro nome della Jazz Age) si concludono con il disastro del ’29: fine della (finta) spensieratezza originata dal denaro facile. E’ dunque possibile stabilire un nesso tra lo stato di crisi e la (grande) letteratura. Tesi affatto originale – ci hanno lavorato con successo generazioni di studiosi – che tuttavia non finisce di stupire. E’ sufficiente accostare gli eventi del Novecento ai protagonisti della grande letteratura per cogliere immediatamente che la loro opera è stata concepita nel ventre gravido della crisi: quello stato inemendabile di disordine e dolore a cui l’opera d’arte tenta di dare ordine e spiegazione. Mentre nel frattempo la confusione continua a regnare sovrana, l’inevitabile domanda è: l’uomo novecentesco è il più confuso della storia?
La confusione contemporanea è figlia della post-modernità. Le menti semplici a cui si riferiva il fragile, talentuoso, sfortunato Francis Scott, oggi hanno imparato a giustificare la loro confusione riparandosi dietro il paravento del sostantivo “complessità”. Così la “complessità”, da sinonimo di approfondimento, ricerca, desiderio genuino di conoscenza qual era, è diventata la scusa retorica di chi, messo alle strette, non vuole ammettere di avere torto. Al pari di “divisivo” gemello cattivo dell’insopportabile e melenso “inclusivo”, la “complessità” è la supercazzola che tutto giustifica, tutto assolve, tutto comprende. Dalla politica energetica ai vaccini; dal lock-down al green-pass, per milioni di individui è stato impossibile raggiungere lo status di semplicità e risolvere così una quantità di questioni, persino quelle banali come l’acqua calda. Come e perché è potuto accadere?
Sostiene Noam Chomsky, pensatore che è prudente acchiappare con le pinze: “Sono successe varie cose. E’ nato il postmodernismo, la pretesa che non esista una verità oggettiva e che tutto il sapere è questione di potere e dello sguardo di chi narra una storia. E una gran parte del mondo universitario e degli intellettuali ha fatto suo questo metodo disgraziato. Dall’altro lato il potere pensa di poter creare una propria realtà”.
“Che confusione / Sarà perché ti amo / È un’emozione / Che cresce piano piano / Stringimi forte / E stammi più vicino / Se ci sto bene / Sarà perché ti amo” (Ricchi e Poveri, 1981)
E’ stato il post-modernismo a creare la pretesa che non esista una verità oggettiva e che tutto il sapere sia questione di potere e dello sguardo di chi narra una storia? Non esistono quindi fatti (e neppure gatti) ma solo interpretazioni? Per cercare di capirne qualcosa di più chiediamo aiuto alla cultura pop più pop che esista, la pubblicità.
Lo strano caso del tonno che si taglia con un grissino.
Il tonno che si taglia con un grissino si chiama Rio Mare. E’ da sempre leader incontrastato del mercato italiano. Un primato culturale, prim’ancora che economico. Gli uomini (anche le donne, beninteso) di marketing che hanno creato questo brand di certo sono gramsciani di stretta osservanza, magari pure a loro insaputa. Hanno applicato alla perfezione il tema dell’egemonia culturale, concetto che indica “le varie forme di dominio culturale e/o di direzione intellettuale e morale da parte di un gruppo o di una classe che sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo”.
Sono infatti riusciti a convincere generazioni di consumatori che il tonno migliore è quello più morbido (che si taglia con un grissino, appunto) quando, come i gourmet sanno, è vero il contrario. Il tonno più gustoso sta in latte da 5 o 10 kg e va consumato scegliendo preferibilmente i pezzi interi più grossi. Che, va da sé, per quanto morbidi non lo sono al punto di spezzarsi con un grissino. Il genio diabolicamente gramsciano del marketing Rio Mare ha convinto le nonne, le mamme e le zie italiane che il prodotto migliore è quello che si presenta spantegato in franguglie inzuppate nell’olio, mentre invece è vero esattamente il contrario. Se non credete a me, prendete il traghetto e andate a Favignana dove alla fine dell’Ottocento fu inventato il rivoluzionario metodo della conservazione del tonno sott’olio dopo la bollitura e inscatolamento; se non vi frega una mazza del tonno, sappiate che l’isola è bellissima e vale il viaggio.
Rio Mare ha riposizionato (o posizionato ex-novo) l’intero mercato. “Ben scavato, vecchia talpa!” direbbe Karl Marx che di storia se ne intendeva. Rio Mare è quindi l’esempio di scuola di ciò che è (appare) una post-verità, il prodotto (complesso) della post-modernità. Non è una menzogna: è vero, si taglia con un grissino. Ma non è neppure vero, come invece viene fatto credere, che Rio Mare sia l’esempio sublime della tonnità. Ma ormai è tardi. Decenni di pubblicità intelligentemente martellante hanno stratificato nella mente dell’universo mondo italico la formula Rio Mare = sinonimo di qualità tonnesca. Di più: Rio Mare = benchmark ontologico, è il “tonno in sé”. Nel linguaggio tennistico si direbbe gioco, partita, incontro.
Detto più sommessamente che si può, mi pare che l’intera vicenda ucraina sia interpretabile alla luce dell’effetto Rio Mare. Si prendono enunciati inoppugnabili tipo “la guerra è orribile” / “vogliamo la pace” e li si usano retoricamente come la proposizione del nostro tonno (“così tenero che si taglia con un grissino”). Il risultato è una torsione logica che mischiata a pseudo sillogismi del tipo “senza armi non ci sarebbero guerre” inquina le menti più semplici al punto da impedire la distinzione tra aggressore e aggredito, vittima e carnefice. Scrive un amico sulla sua pagina Facebook: “Un tempo il pacifista era quello che chiedeva all’aggressore di ritirarsi non all’aggredito di arrendersi”.
Ma non solo. L’effetto Rio-Mare induce a un ulteriore slittamento sintattico: poiché il per altro legittimo governo Ucraino è sostenuto dalla Nato e dagli Usa (affermazione equivalente a “così tenero si taglia con un grissino”) per la proprietà transitiva la sacrosanta autodifesa ucraina assume i tratti dell’imperialismo neo-colonialista, essendo Nato e Usa “imperiali e coloniali” a prescindere. L’effetto pubblicità, l’equivalente delle decennali campagne Rio-Mare, è infine compiuto da commentatori lontani mille miglia dal conflitto che quotidianamente mettono in dubbio i fatti e le responsabilità della guerra più seguita al mondo.
A scanso di equivoci, mi piacere ricordare che Józef Teodor Konrad Korzeniowski nacque in Polonia a Berdyčiv, oggi città ucraina. Tecnicamente era un polacco. Ma com’è noto, scelse di vivere in Inghilterra, si fece chiamare Conrad e scrisse le sue opere in inglese, la sua terza lingua dopo il polacco e il francese. E’ vero, la verità può apparire complessa. Ma con un po’ di buona volontà, distinguere il guano dalla cioccolata è ancora possibile.