Questa è la storia di un figlio alla ricerca di un padre. Ma tratta anche di una tecnica letteraria che si chiama “narrazione ad anello”. Credo sia difficile iniziare in modo più noioso; tuttavia se preciso che la “narrazione ad anello” contraddistingue come si racconta una storia in Occidente dall’Odissea in poi, forse ho la speranza di far crescere di un buon 0,5% la probabilità di essere letto. A ben vedere anche questo è uno dei problemi tipici della narrazione in Occidente, al tempo in cui non si ha tempo né voglia di leggere: le storie devono essere brevi, magari declamate come ai tempi di Omero, così le si può ascoltare in auto, facendo colazione, oppure in bagno quando ci si fa la barba come si dice per decenza, perché altro non si può nominare per via che al signor Zuckerberg non garba e l’algoritmo ti boccia. Ai tempi dei tempi c’era l’aedo, beninteso se eri sufficientemente ricco per permetterti di ascoltarlo. Oggi noi l’aedo lo chiamiamo podcasting. E’ una chicca tecnologica che non sono poi così certo sia un gran passo in avanti. Anzi mi pare un passo indietro come le graphic novel, i disegnetti per quelli non hanno voglia di leggere ma se la tirano da avanguardia visiva o cose del genere. Fine della premessa.
L’ho presa lunga ma vivaddio ceci n’est pas une pipe e nemmeno un messaggio pubblicitario. Quindi libero di dire quello che penso da sempre: corto o lungo, se interessa chi è abituato a leggere leggerà, in caso contrario saluti a Ciccio Salciccio. Di questa tecnica avevo scritto qualche tempo fa raccontando di “Tre anelli. Una storia di esilio, narrazione e destino” di Daniel Mendelsohn, talento narrativo che miscela magistralmente gli ingredienti del saggio alla scrittura d’invenzione. La narrazione ad anello (rapido riassunto) è quella cosa che arresta il tempo e deforma lo spazio del “qui e ora” trasportando il lettore in un altrove attraverso una (breve o lunga) digressione. L’esempio classico è il racconto della cicatrice d’Odisseo che la nutrice Euriclea scopre mentre lava l’eroe tornato a casa in incognito.
Inutile dire che lo stesso Mendelsohn. è maestro nell’esercizio di questa tecnica. Ne ho avuto ulteriore dimostrazione leggendo “Un’Odissea” memoir (sì, ancora un memoir) che ancora una volta mischia gli elementi tipici del saggio (Mendelsohn. è un raffinato classicista: per nostra fortuna l’America ne produce ancora) al racconto della memoria. In fondo anche questo, il passare da un lavoro all’altro dello stesso autore senza rispettarne l’ordine di creazione, è una sorta di “lettura ad anello”. Un modo per scoprire come i materiali lavorati nell’officina di un autore conservino le tracce di un’antica familiarità, come fratelli separati dal tempo che si riconoscono per una postura del corpo o per l’apertura eccessiva di certe vocali.
“Un’Odissea” è la storia del padre anziano che decide di seguire il seminario sull’Odissea tenuto dal figlio, il raffinato classicista di cui sopra. Un matematico ottuagenario siede per un intero semestre in un angolo della classe insieme alle matricole diciottenni di un’università nord americana. Dunque la storia della relazione tra Telemaco e Odisseo. Ma anche tra Odisseo e il vecchio Laerte. E tra Daniel Mendelsohn. e suo padre Jay. E pure la storia del viaggio in nave, una crociera a tema sulla via di Itaca, che padre e figlio compiono insieme. (Spoiler: per banali ragioni sindacali la nave non approderà a Itaca, ma padre e figlio scopriranno parecchie cose l’uno dell’altro). Un libro da leggere anche se non si è alla ricerca del padre e si pensa di conoscere l’Odissea a menadito (i classicissimi riservano sempre sorprese, anche alla millantesima lettura).
Appendice 25 Aprile
L’incontro di Odisseo e Achille agli inferi, libro XI dell’Odissea, riscuote grande successo tra gli studenti di Mendelsohn. Odisseo si rivolge al più forte degli Achei salutandolo quale re delle ombre. Ma Achille non è più il guerriero che brama la gloria perenne anche a costo di una vita breve. Ora che è ombra tra le ombre preferirebbe essere vivo, l’ultimo servo di un contadino povero, piuttosto che dominare tra i defunti. L’elogio della virtù guerriera dell’Iliade, il poema della forza e della ferocia, lascia il posto alla poetica della saggezza; se l’Iliade celebra il vagheggiamento del mondo greco arcaico per l’aretè, la virtù e l’eccellenza degli aristoi, i migliori che si distinguono per forza, coraggio e ferocia in battaglia, l’Odissea celebra la maturità del nostos, la signoria della mente, l’intelligenza che calcola, progetta, dispone di sé. Soprattutto celebra l’homophrosyne, parola che indica la comunanza di pensiero tra due persone: la complicità che nasce dall’affinità di due corpi che si sentono un’unica mente: Odisseo e Penelope.
Tutto bene, quindi? L’eroe dell’Iliade che uccide per primeggiare e primeggiando uccide, contrapposto al sagace Odisseo, l’eroe dal pensiero polimorfo, la cui costanza nella sciagura appare così incredibilmente affine a noi moderni? Parrebbe che no. Diciamo, anzi, certamente no. Il prudente Odisseo ama immensamente la vita. Eppure non scorda che per riconquistare la propria dovrà combattere e versare il sangue di chi gli minaccia la sposa e gli devasta la casa. Ogni riferimento a chi in Ucraina continua a combattere (anche se secondo taluni avrebbe dovuto avere il garbo di arrendersi senza disturbare) non è assolutamente casuale.