Quanto è grande la Golia?

By on Mar 31, 2022 in Comunicazione

Leggo che Jannik Sinner, giovane predestinato del tennis italiano, si è dovuto ritirare da un match appena iniziato per via delle vesciche al piede. Quella del piede è una vecchia storia. Pare colpisca, ricordate? prevalentemente gli eroi. Il piede graveolente del povero Filottete. Quello del generale Garibaldi (“La palla è penetrata a tre linee al di sopra e al davanti del malleolo interno: la ferita ha una figura triangolare a lembi lacero-contusi del diametro di mezzo pollice circa”). Per non parlare del più celebre, il tallone cantato da Omero.

La triste storia del giovane Jannik mi fa venire in mente un motto chiosato persino più della più tetragona delle maionesi. La storia che dio (variante: il demonio) starebbe nei dettagli. Wolfram Eilenberger la ricostruisce narrando l’avventura umana di Aby Warburg, francamente assai più angosciosa di quella del luminoso Jannick. (La questione dell’ubicazione topologica di dio dev’essere davvero esiziale, perché la troviamo attribuita anche a Mies Van Der Rohe, un altro dei grandi tedeschi che dovettero abbandonare in fretta e furia il loro paese per lo stesso motivo che induce oggi gli spiriti liberi di Russia a scappare da Mosca. Ma questa è un’altra storia).

Pare quindi che nel tennis, nell’architettura come nell’analisi iconologica, la cura del dettaglio sia, oltre che indispensabile, anche garanzia di successo. In buona sostanza, basterebbe essere maniacali sino alla pignoleria controllando e ricontrollando l’adeguatezza (la consistenza, l’armonia, la coerenza) di ogni dettaglio, et voilà, les jeux sont faits, rien ne va plus? Ci riflettevo pensando ai miei amati clienti e ai progetti di comunicazione che – insieme a loro / per loro / nonostante loro – cerco di imbozzolare meglio che posso. E pensandoci tra un legnetto e l’altro raccolto e lanciato alla creatura pelosa che ci accompagna nella quotidiana ronda al Parco Sempione, ho concluso che no, anche se dio (variante: il demonio) sta nei dettagli, la cura del dettaglio non basta. Non è mai bastata. Garibaldi ferito sull’Aspromonte, Filottete abbandonato dai compagni per via dell’orrenda pute, e pure l’Achille pie’ veloce avevano un progetto prim’ancora che una serie di dettagli, sia pur ben congegnati, coerenti e consistenti. Avevano un’idea forte: costruire l’Italia, tornare a casa dopo la guerra di Troia, vendicare l’amico Patroclo (e conquistare l’eternità).

Quanti dei miei amati clienti lavorano su un’idea forte? E, ammesso che ci sia, quanto è forte quest’idea? (parafrasi della celeberrima campagna pubblicitaria: “Ma quant’è grande ‘sta Golia?”). Cosa sia un’idea forte lo sta capendo di questi tempi pure il signor Putin: la scampagnata che aveva in mente si sta rivelando una via crucis che al confronto quella di Gesù è una passeggiata di salute. Tornando alle nostre cose piccole di ogni giorno (mannaggia, quanto siamo fortunati e non lo sappiamo!) l’idea forte riguarda il modo di proporsi dopo gli anni della pandemia e ora della guerra in Europa. Idee forti per aziende medio-piccole, il nerbo dell’imprenditoria italiana che regge il paese e paga oltre agli stipendi anche gli spiccioli (sic!) da elargire nei redditi di cittadinanza.

Le idee forti (se vi piace di più chiamatele concept) nascono dall’intuizione dell’imprenditore. L’intuizione è come l’ingrediente dello chef. Si tratta poi di elaborarlo l’ingrediente, di trasformalo in piatto all’interno di un menù strutturato e coerente (pure lui). Rispettosi entrambi (il singolo piatto e la lista del menù) dell’identità del locale. Che a sua volta deve essere coerente con quella che chiamano location e con il target a cui ci si rivolge: mai aprire un’asaderia argentina in un quartiere di vegani. L’intuizione deve diventare strategia, ovvero pensiero mobile capace di modellarsi con la rapidità di un Terrier (nel senso di cane) alla realtà. L’idea forte in teoria si struttura così. E anche così, anche ben pensata e ben strutturata, può rivelarsi inadeguata e fallimentare. Perché il marketing, come la cucina e la letteratura, non è una scienza. E’ un’arte. Peccato che Aby Warburg (“amburghese di cuore, ebreo di sangue, d’anima fiorentino”) non l’abbia praticata: ne sapremmo certamente assai di più.

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