Non ho la pretesa che delle persone normali, cioè normalmente dotate di buon senso, siano disposte a sciropparsi le 370 pagine de “La Russia di Putin” di Anna Politkovskaja. Eppure, contrariamente alle “Letture facoltative” della divina Szymborska, bisognerebbe diventassero una lettura obbligatoria. Come dovrebbe esserlo la nostra Costituzione, citata da molti e ignota ai più. Lettura obbligatoria di un capitolo (un articolo) settimana da compiersi nei circoli ricreativi dopolavoristici, nelle sedi dell’ANPI e in quelle, se esistono ancora, dei movimenti e dei partiti che dicono di riconoscersi nella Costituzione della Repubblica.
“La Russia di Putin” della Politkovskaja può essere letto come un giallo o, indifferentemente, come un racconto dell’orrore. La testimonianza documentata in modo accurato sino allo sfinimento di come, dopo un breve periodo di ubriacatura libertaria frutto della glasnost gorbacioviana in cui tutti potevano parlare e sparlare di tutti e di tutto senza filtri né controllo, con la seconda guerra cecena la Russia ritorna rapidamente ad essere quella di sempre: il luogo fisico e mentale dove non esiste nessuna libertà.
Scrive nella prefazione la Politkovskaja: “Questo libro non è un’analisi della politica di Putin… le analisi politiche le fanno i politologi. Io sono un essere umano tra i tanti, un volto nella folla di Mosca, della Cecenia, di San Pietroburgo o di quaunque altra città della Russia. Ragion per cui il mio è un libro di appunti appassionati amargine della vita come la si vive oggi in Russia… Io vivo la vita e scrivo di ciò che vedo”. Scrive di violenza quotidiana. Di soprusi. Di inchieste taroccate sul nascere. Di processi farsa. Di collusioni sfacciate tra poteri (teoricamente) indipendenti. Cose che noi in Italia conosciamo bene: a distanza di decenni non si ha certezza su chi mette le bombe e neppure su chi depista le indagini. Ma noi abbiamo almeno la consolazione di poter urlare la nostra indignazione. E sperare che, fra le molte indagini insabbiate, la verità venga a galla. A Mosca del “caso Cucchi” non avremmo mai sentito parlare.
Perché, immersi come siamo in quotidiane mestizie, è necessario leggere “La Russia di Putin”? Come afferma l’autrice nelle prime due righe “Questo libro parla di un argomento che non è molto in voga in Occidente: parla di Putin senza toni ammirati… Diventato presidente Putin… non ha saputo estirpare il tenente colonello del KGB che vive in lui, e pertanto insiste nel voler raddrizzare i propri connazionali amante della libertà. E la soffoca, ogni forma di libertà, come sempre ha fatto nel corso della sua precedente professione”.
Anna Politkovskaja si è recata molto spesso in Cecenia per documentare i massacri e denunciare la politica russa. Nel settembre 2004 si sente male sull’aereo che la sta portando a Beslan, dove è in corso l’assedio della scuola presa d’assalto da guerriglieri ceceni che tengono in ostaggio molti bambini. L’aereo è costretto a tornare indietro. Si sospetta sia stata oggetto di un avvelenamento. Nel dicembre 2005, nel corso di una conferenza di Reporter Senza Frontiere a Vienna sulla libertà di stampa, afferma: “Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano”. Dice di considerarsi “una persona che descrive quello che succede a chi non può vederlo” e denuncia il clima di intimidazione instaurato da Putin contro la libertà di stampa e di parola. Muore il 7 ottobre 2006. Non di raffreddore come Andropov. Viene uccisa a Mosca nell’ascensore del palazzo dove abita. Quattro colpi di pistola, uno alla testa.
“Ci accorgeremo troppo tardi che eravamo figli della stessa madre e che la Russia era l’Europa. E’ l’ultima occasione per incontrare la parte migliore di uno smisurato Paese perché non ricada nel gelo stalinista” scrive Paolo Rumiz sul “Robinson” del 26 marzo. Sono affermazioni la cui involontaria comicità induce al sorriso: impossibile che un uomo avveduto come Rumiz non sappia che il gelo stalinista non ha mai conosciuto tepore. Quando e dove saremmo stati figli della stessa madre? E quando mai la Russia è stata Europa? Un immenso paese che ha conosciuto solo la servitù: della gleba per secoli, del bolscevismo per larga parte del Novecento, oggi dei Siloviki di Putin. Un immenso spopolato paese le cui élite – i migliori, le persone dal cuore impavido, le donne e gli uomini di talento – sono fuggiti. Chi non ci è riuscito è morto nei gulag oppure ha accettato di vivere in silenzio. Un paese immenso la cui popolazione è stata educata a vivere nella paura, a conformarsi all’obbedienza, ad accettare come normale e fisiologico un potere basato su nepotismo e corruzione.
Emmanuel Carrère era a Mosca nel momento in cui è cominciata l’invasione dell’Ucraina. Ci è rimasto una settimana. Il racconto di quei giorni non induce alla speranza. Pare che il popolo russo sarà costretto a vivere nel medioevo ancora a lungo.