Ho terminato la lettura di “Hitch 22”, l’autobiografia di Christopher Hitchens. Ne parlo perché rappresenta per me, e suppongo per molti altri lettori, l’occasione per riflettere su avvenimenti del passato prossimo che riguardano la nostra vita. Hitchens è molte cose (giornalista, saggista, critico letterario, polemista, illuminista anticlericale nemico di ogni religione, eccetera eccetera) ma non è uno storico. Non c’è quindi nulla di distaccato e neppure di lungamente (e noiosamente) meditato nelle sue considerazioni: in queste memorie ci sono gli ultimi quarant’anni della nostra vita politica oltre che della sua personale e professionale. Molto bizzarre le ultime due, rese particolarmente gustose dalla quantità di alcol e dalla varietà di pettegolezzi salaci su questo e quel potente della terra; tuttavia francamente accessorie rispetto all’importanza delle valutazioni politiche e delle provocazioni culturali che Hitchens dispensa a piene mani.
Come quando, ancora “comunista internazionalista”, è costretto a riconoscere alla pur detestata Thatcher il merito di aver dato uno scrollone definitivo al corporativismo consociativo del partito laburista e di aver contribuito con la guerra delle Falkland alla caduta del regime assassino di Videla. Lo scossone più consistente arriva quando Hitch come lo chiamavano gli amici ci racconta dell’11 settembre. Di quale sia stata la sua reazione emotiva prim’ancora che politica alle posizioni assunte da Noam Chomsky e da buona parte della sinistra americana, sintetizzabili nell’orrenda espressione “ce la siamo cercata”. Che in qualche misura significa anche “ce la siamo meritata”.
Dobbiamo a Cristopher Hitchens l’espressione “fascismo dal volto islamico” abbreviata in islamofascismo. Dobbiamo a lui il coraggio, la lucidità e la fermezza con cui si è immediatamente contrapposto ai sensi di colpa antimperialisti e tardo terzomondisti grazie ai quali molta della sinistra americana ed europea si è in qualche modo sforzata di giustificare e comprendere il terrorismo islamico. Equiparando i missili sparati da Clinton contro i capi di Al Qaida al dirottamento degli aerei civili contro le Torri e il Pentagono. Ma non è questo il punto dove voglio arrivare: che Noam Chomsky sia stato un brillante studioso di linguistica quanto un imbecille politicamente (i suoi giudizi su Maduro e la democrazia in Venezuela farebbero arrossire pure i fratelli De Rege, quelli del “vieni avanti, cretino”) e che i sinistrati europei abbiano paura di chiamare le cose col loro nome quando di mezzo c’è l’Islam, ormai l’hanno compreso anche le casalinghe di Pizzighettone.
Il punto è Putin: è il rapporto di amore nostalgico per l’Unione Sovietica, la gratitudine per il sangue versato nella guerra patriottica, i 30 milioni di morti, il mito del sol dell’avvenir che non è sorto, ma pazienza.
Il punto è Putin: è l’antiamericanismo che scatta con la puntualità di un anticorpo monoclonale al solo pronunciare l’acronimo Nato.
Il punto è Putin: è il piacere sado-maso che scatena i sovranisti padani (e non solo) all’idea dell’uomo forte che comanda con pugno di ferro ridenti paesi dove i “froci” vengono manganellati per strada e i giornalisti sparati.
C’è infine la terza tendenza. Vale per Putin, per Orbán per i gerarchi polacchi e soprattutto per la China. E’ la riedizione commercial-economica del famoso “morire per Danzica”. Con Putin, con Orbán, con Xi Jinping, non si fa la guerra, si fanno affari. E’ quella più pericolosa: zero principi, zero valori, cento per cento cinismo.
Contrariamente ai milioni di commissari tecnici della nazionale di calcio, i quali abbandonata momentaneamente la virologia oggi si occupano attivamente di politica internazionale, confesso di sapere poco più di nulla. Privilegio questo dell’ignoranza che mi mette nella condizione mentale di tentare di colmarla e persino il lusso di cambiare idea se questa dovessi rivelarsi sbagliata.
Oltre alla lettura divertente quanto liberatoria di Hitch 22, ne consiglio anche una infinitamente più breve: un’intervista di Anne Applebaum su Putin e noi pubblicata su “Atlantic” e rilanciata da “Huffpost”. La trovate qui. Il punto siamo noi.