“C’era una volta un re / seduto sul sofà / che disse alla sua serva / raccontami una storia / la serva incominciò”.
Nell’attesa di assistere alla performance di Drusilla Foer sul palco di Sanremo, mi sono venute in mente le parole dell’amico Giuseppe, attore anglo-pugliese noto per la sapienza con cui sposa la passionalità al rigore. Il suo ultimo amore – in senso temporale, beninteso – è il podcast, il nuovo genere tecno-letterario il cui codice genetico secondo Giuseppe ha parecchio in comune con “Carosello”.
Poche parole come “Carosello” svolgono la funzione di marcatore del tempo. Ho googolato il lemma. Solo dopo un centro commerciale, un B&B di Bologna, un centro servizi a Singapore, una casa di produzione musicale, è comparsa la voce Wikipedia: “Carosello fu un programma televisivo pubblicitario italiano andato in onda sul Programma Nazionale (poi Rete 1) della Rai dal 3 febbraio 1957 al 1º gennaio 1977”. Per verificare la tesi di Giuseppe ho digitato “Carosello” su YouTube.
Il primo video che compare è la pubblicità (un tempo la chiamavamo réclame) della carne Montana. Un racconto western incredibilmente lento realizzato con immagini fisse (quindi a basso costo) il cui climax si sviluppa tenendo conto del consistente pubblico di bambini; sicché ogni qualvolta la contrapposizione pare assumere forme violente, una buffoneria provvede a stemperare la (finta) tensione riportando la narrazione alla dimensione giocosa: “vedendo la carne Montana che stringo – alè – vengon tutti a mangiare con Gringo.” Insomma, non si spara più. Anzi, non si è mai sparato: è una fiaba, nessuno si farà male. Lo spot, andato in onda per anni, si conclude vantando i caratteri gastronomici del prodotto, la salubrità nutrizionale delle “carni ben scelte” e financo le inevitabili numerose “occasioni di consumo”.
Tuttavia, nonostante la costante presenza in “Carosello” – ambitissimo e unico contenitore pubblicitario di valore – il peso delle vendite Montana stava a quelle di Simmenthal come un Chihuahua a un San Bernardo. Alle storie di Gringo Simmenthal contrapponeva la felicità coniugale della coppia Walter Chiari-Sylva Coscina conquistata attraverso un nuovo modello di consumo. La carne – beninteso, la carne Simmenthal – diventava il veicolo della nuova modernità. La coppia, che più piccolo-borghese non si sarebbe potuto, perfetta testimone delle inquietudini esistenziali degli anni ’60, trova serenità ed equilibrio grazie al miracolo culturale compiuto dalla carne in scatola. Il coro (come nella tragedia greca) suggella l’esito: “Noi siamo felici mangiamo più carne. Chi mangia più carne più Simmenthal mangia”. Detto en passant, il soccombere della campagna “Gringo” è abbastanza inevitabile: i bambini adorano i western ma non fanno la spesa; e neppure i maschi adulti di casa a quei tempi. Possibile che il marketing Montana non l’avesse compreso?
Entrambi gli spot si reggono su due assunti:
- l’offerta di un piccolo spettacolo prima della proposizione commerciale
- il rispetto della logica formale che gli americani chiamavano USP: unique selling proposition. La traduzione in italiano (“argomentazione esclusiva di vendita”) non rende l’essenza della tecnica ideata negli anni Quaranta e ancora oggi utilizzata con successo.
Detto in soldoni, le cose stavano più o meno così: “caro cliente (acquisito e potenziale) ti racconto una storia divertente, uno sketch, una canzonetta, un cartone animato; in cambio ti chiedo di ricordare (e successivamente premiare con l’acquisto) il prodotto che te l’ha offerta”. Nota: allora si parlava ancora di prodotto; il concetto di brand, infinitamente più articolato e foriero di successive perversioni, arrivò molto dopo.
E oggi che succede? Nonostante la quantità sbalorditiva di strumenti previsionali e consuntivi, le campagne pubblicitarie pare abbiano smarrito l’orientamento chiaro e consistente offerto dall’USP (“ogni campagna pubblicitaria deve proporre un beneficio per il consumatore; questo deve esser tale che la concorrenza non possa offrirlo”) e insieme ad esso il dono della distinzione. Un esempio classico sono le campagne pubblicitarie automotive. Brand la cui diversità dovrebbe essere addirittura ontologica vengono uniformati da tiritere il cui paradossale risultato è quello di annullare la personalità della marca e rendere i prodotti perfettamente fungibili gli uni rispetto agli altri. Automobile: un tempo simbolo di fantasia, libertà e potere, oggi strumento atto agli spostamenti personali ad alto impatto ambientale che costa un sacco di soldi e vale la metà di quello che hai sborsato 12 millisecondi dopo la firma del contratto. Punto.
Tutti promettono la stessa cosa (lo stesso beneficio, secondo l’USP) e quel che è peggio, largo circa nello stesso modo. E, fateci caso, quando è possibile segnalare qualche esempio di coraggiosa distinzione (come la campagna Jeep dove l’auto viaggia sicura nella neve per accompagnare a scuola i piccini) il segreto sta nel fatto che ci stanno raccontando una storia e non un bla-bla; e guarda caso una storia corroborata da una robusta carica d’affetto: i piccini accuditi nel sicuro caldo ventre dell’automobile che sfida con noncuranza i rigori della Natura indifferente.
Raccontami una storia era il segreto di “Carosello”. Plausibili o assurde come il signore in mezzo al traffico, il pulcino vessato perché sporco e nero, o le vicende tragicomiche di Olivella e Maria Rosa, le storie di “Carosello” erano divertenti. Abbiamo avuto davvero la fortuna di vivere tempi in cui erano i programmi televisivi ad interrompere fastidiosamente le pubblicità e non viceversa?
Tornando a Giuseppe e alla sua ultima (solo in senso temporale) passione, credo che la sua intuizione sia più che solida. Non so se si possa parlare di filogenesi tra “Carosello” e il podcast. Ma di certo “raccontami una storia” è il segreto dei podcast. Storie per persone che hanno poco tempo per leggere. O che non leggono affatto, esistono e sono larga maggioranza. Oppure per chi vuole ottimizzare (orribile parola ma non trovo un sinonimo) il proprio tempo. E quindi ascolta le storie dei podcast quando si lava i denti, in auto o sui mezzi nel traffico. Per avere più tempo per sé. Per leggere, o magari solo per guardare le figure. Del resto è quello che ci aspettiamo dalla performance di Drusilla Foer, infinitamente più divertente, stimolante e provocatoria, lei e le sue storie, delle (inevitabilmente) banali e conformate canzonette di Sanremo.