Abbiamo bisogno delle categorie. Anche quelle banali tipo zucchero e sale fino confortano il nostro bisogno di certezze. Sin dai tempi di Noè, il santo patrono degli enologi, usare il dolce in luogo del salato può essere fonte di seccature. Mi domando se sia questa l’origine della diffidenza nei confronti del gender-fluid e penso al tentativo di Aristotele di categorizzare il mondo sensibile – sostanza, quantità, qualità, relazione, dove, quando, stare, avere, agire, patire – ovvero i modi e le forme in cui l’essere si manifesta.
Le categorie ci aiutano non solo in cucina. Rivelano la loro utilità anche in narratologia, arti visive, teatrali e cinematografiche; distinguono la commedia dalla tragedia, il sublime dal farsesco, il romanzo storico dall’autobiografia, il cinema dal documentario: sicché è assai più difficile confondere l’Aida con la Marcia Reale, come amavano dire nel Monferrato dei miei anni giovanili.
Purtroppo, tra le molte invenzioni di sapore patafisico la nostra epoca annovera anche l’annacquamento delle categorie oltre che dei generi. E’ il caso di “The Ferragnez”, programma televisivo prodotto da Banijay Italia per Amazon Prime Video dedicato alla vita e alle opere di Chiara Ferragni e Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez. Qualcuno lo definisce serie tv, altri docu-film. Ma a “The Ferragnez” mancano gli elementi costitutivi di entrambe le categorie: la trama basata su eventi irreali della prima, l’assenza di intenti critico-storici tipici della seconda. E’ un genere nuovo quindi, oppure appartiene a una categoria nuova per il nostro paese, diciamo l’imitazione di ciò che la ditta Kardashian da anni produce proficuamente negli Stati Uniti? E se è un genere nuovo (come in fondo nuovo per l’Italia è stato il mestiere della Ferragni) in che categoria narrativa va inserito?
Non sono questioni di lana caprina. Ho letto qualche recensione dopo aver visto le otto puntate del programma: un massacro. Nel più benevolo dei casi il recensore accusa di furberia la coppia e di provincialismo gli stupidi spettatori che (orrore & raccapriccio) osassero identificarsi con la loro vita dorata. Non si vede neppure l’ombra di un domestico (anzi, sì, quella fuggevole di una tata che mette a letto il piccolo Leone, il figliolino della coppia) strilla X, eppure ce ne devono essere parecchi nella super-mega casa che ospita l’allegra famigliola. “Un’overdose di triste Riccanza in cui sia ben chiaro che i soldi non fanno la felicità… La serie Amazon sulla famiglia felice è un’ennesima costruzione a tavolino della vita reale” accusa Y sulle pagine un po’ (tanto) appassite di quello che fu il più importante settimanale di critica sociale. Il successo (il denaro generato dal successo e il successo che genera denaro) è insieme al talento la sola cosa imperdonabile nel Belpaese.
Questa storia del successo imperdonabile è uno stigma che colpisce da sempre la povera signora Ferragni in Lucia. Da tempi immemorabili la gggente si chiede perché mai quella lì faccia così tanti soldi semplicemente mostrando sé stessa – per di più vestitissima – a milioni e milioni di persone contentissime di seguirla come si dice in gergo. Ma ora quella lì non solo continua a fare un sacco di soldi mostrando sé stessa vestitissima, ma ha pure messo su famiglia con il truzzo di Buccinasco (nuovamente orrore&raccapriccio) quel rapper di nome Fedez tatuato come un papuo quando ancora non si sapeva bene dove fosse la Papuasia. Il moralismo di pseudo-sinistra che ha fatto società per azioni con la piccineria della piccolissima borghesia inurbata non solo non tollera la ricchezza costruita con il lavoro, ma detesta sopra ogni cosa quelle che considera intollerabili mésalliance: la bianca che sposa il negro (la piccolissima borghesia inurbata li chiama così) il magrebino musulmano o il ragazzo illustrato che ora ha preso pure il vizio di dipingersi le unghie.
Non sono sicuro in quale categoria rientri “The Ferragnez”. A tratti mi è parso uno spottone di Regione Lombardia (contratto di rete con Valle d’Aosta e Città di Sanremo?) per vendere all’estero la capitale: Milano gigioneggia sia pur fotografata con discutibili tonalità fredde. Ma sono dettagli o pippe di cinefilo: la sceneggiatura trasuda intelligenza da tutti i pori. Se poi penso che all’italianuzzo medio (noi) hanno ancora il coraggio di ammannire le storie di improbabili omicidi risolti da un improbabile prete ciclista che puntualmente imbecca gli imbelli carabinieri della stazione locale, ecco che “The Ferragnez” finisce col parere un calice di Chablis in luogo dell’orrendo Tavernello.
Chi vince e chi perde? Domanda inevitabile: c’è sempre un perdente e un vincitore. Non me ne vogliano le mie dodici lettrici di Parabiago, ma chi soccombe è la Chiara come diciamo noi a Milano, sempre perfettina come una Barbie (a proposito: quando una versione dedicata?) insopportabile nel birignao dei suoi “super!” e “ammmmòre!” scanditi ogni 5 secondi come se avesse stipulato un contratto quantità, a rischio perenne d’essere scambiata – lei che è un genio – per l’oca giuliva che non sarà mai. Inutile dirlo, morti e sepolti i familiari stritolati dal ruolo di figuranti sciocchi.
Chi si salva oltre al bimbo Leone e ai bravissimi sceneggiatori? Ma lui, Federico Leonardo Lucia in arte Fedez. Lunare, schiavo dell’ombra che si porta dentro, timoroso – come confessa nella finzione delle sedute con lo psicologo – del fatto che “chi viene dal niente può tornare nel niente”, un giovane uomo intelligente, pensoso, autocritico, insicuro, scontroso, capace e finanche coraggioso: ci vuole del fegato a pitturarsi le unghie come un Maneskin qualsiasi. Non vi piace? Peggio per voi: è lui l’uomo che la bella perfettina da ventiquattro milioni di follower nel mondo ha scelto come padre dei suoi figli.