Dicono che l’inferno sia lastricato da buone intenzioni. Dante, l’unico che sostiene di averlo visitato in modo approfondito, è renitente in proposito; e dunque se non quelle dell’inferno, indubbiamente lo sono le strade che conducono a serie tv molto elogiate da critica e media. L’ultima in ordine cronologico è Bridgerton, presentata come “la serie che ci farà sognare il periodo della Reggenza”.
Ho guardato la prima puntata con la fiducia generata dalla geneologia: la serie è firmata Shonda Rhimes, la sperimentata autrice di Grey’s Anatomy. Dunque una garanzia indiscutibile. E qui calca l’asino (e chi va dal mugnaio s’infarina, chi con lo zoppo impara a zoppicare eccetera eccetera). Ammesso e non concesso che l’ontogenesi ricapitoli la filogenesi, la legge della biologia purtroppo non s’attaglia all’umana creatività.
Presentato come un gossip sull’età di Re Giorgio tutto intrighi amorosi, sesso, pettegolezzi e maldicenze, la serie megalomanica per scenografie, set e ambientazioni, casca sul più banale degli uccelli, giusto per citare un classico di Mike Buongiorno: alcuni aristocratici protagonisti delle turbinose vicende ambientate nella prima decade del secolo XIX sono interpretati da attori di colore.
La serie racconta un’immaginaria società multietnica nella quale i neri occupano il vertice dell’aristocrazia. Il regista Chris Van Dusen ha infatti sposato le teorie di alcuni storici inglesi secondo i quali la regina Charlotte – moglie di re Georgio III – sarebbe la prima regina di origini miste della storia. Un’idea dice “che mi ha colpito moltissimo e mi ha fatto domandare cosa sarebbe successo se grazie a lei altre persone di colore fossero state elevate in società con titoli, terre”. Davvero una bella domanda. Peccato che in quell’epoca (e sino a giorni assai recenti) l’unico modo in cui le persone di colore (neri, gialli e rossi) furono “elevate” era il lavoro nei campi, in miniera, in fabbriche infernali e ovunque nei ranghi più infimi della servitù. Il Duca di Hastings interpretato da un attore nero non è una “scelta di regia”, è un insulto alla memoria degli schiavi: secondo l’Enciclopedia Brirannica la “migrazione forzata” dagli inzi sino al 1867 è quantificabile tra 7 e 10 milioni di persone.
Non è la prima volta, non sarà l’ultima. Anzi accadrà sempre più spesso. Ricordo certe (per altro mirabili) produzioni scespiriane di Kenneth Branagh nelle quali alcuni attori erano neri. Motivazioni commerciali. O molto più probabilmente necessità di rispondere preventivamente alle follie della così detta “cancel culture” secondo la quale poiché ne “Le avventure di Huckleberry Finn” le persone di colore vengono chiamate “negri”, bisognerebbe riscrivere le opere di Mark Twain o impedirne del tutto la circolazione.
Riscrivere la storia è semplice e, per le menti più semplici, dilettevole. Possiamo far prendere la parola a personaggi femminili nelle assemble nell’età di Pericle; rappresentare la morte di Cesare con Bruto e Cassio interpretati da bellicosi indiani cerokee; realizzare una serie tv su Mozart en travesti come la (compianta) lady Oscar. O ancora, se la cosa lo rendesse più facilmente commerciabile nei mercati del Far East, produre un format sulla storia dei Papi in cui Papa Giovanni figuri nato nelle vicinanze di Osaka.
Perché inquietarsi, si chiederanno i miei 17 lettori, cresciuti nel frattempo a causa della noia claustrale. Spegni l’elettrodomestico e passa ad altro, direbbe qualcuno fra i più avveduti di loro.
Purtroppo viviamo in tempi difficili. “La storia è testimonianza del passato, luce di verità, vita della memoria, maestra di vita, annunciatrice dei tempi antichi” sosteneva quell’ingenuo di Cicerone. A furia di negare, censurare, obliterare, dimenticare e soprattutto falsificare, sarà sempre più difficile l’arte della distinzione: quella cosa che senza necessità di ulteriori controlli organolettici ci impedisce di confondere la cacca dalla cioccolata.
“Temo di vivere abbastanza per vedere cose che pensavo la Storia avesse definitivamente bocciato, invece erano solo sopite.” Liliana Segre