La storia più divertente della settimana? Senza dubbio le scarpe della Lidl. Su quelle sneaker colorate come una guardia svizzera si sono buttati a pesce un po’ tutti, compresi gli altrimenti autorevoli opinionisti della più autorevole stampa nazionale. Ne hanno parlato nell’ordine sociologi, filosofi contemporanei, semiologi, esperti di comunicazione di massa. Se non mi sono perso qualcosa, il silenzio più fragoroso è quello dei markettari, a rigor di logica i più titolati. Ma in pieno disastro Covid, col Recovery Found bloccato dai dittatorelli est-europei e le regioni arancioni che diventano rosse, quelle rosse che se possibile lo diventano ancora di più, la tentazione di pucciare il biscotto nel supermercato dei poveri che s’inventa una strategia fichissima per diventare fichissimo era (evidentemente) irresistibile. Perché sì, perché più d’uno ha scritto persino che di una geniale strategia di marketing pianificata a Berlino si tratta, una genialata escogitata per innalzare l’immagine dell’insegna.
Ora si da il caso che a Berlino avessi altro da fare in luogo di passeggiare tra gli scaffali della Lidl. Quindi non ho la più pallida idea di cosa vendano né della qualità media delle cose che vendono. Ma conosco benissimo quelli di Milano. Ci sono entrato per curiosità la prima volta, per snobismo la seconda. La terza è esclusa. Perché, “sneaker entrate nella leggenda” a parte, potendo permetterselo nessun milanese sano di mente sceglie Lidl invece che Esselunga, Coop, Conad o il Carrefour sotto casa.
La storia che gli opinionisti, i sociologi, i filosofi contemporanei, i semiologi, e gli esperti di comunicazione di massa invece non raccontano è la storia di come si crea e poi si fa crescere un brand. Di quella cosa complicata e difficile che trasforma un prodotto (un servizio) in marca. Non lo raccontano perché non hanno la più pallida idea di quanto tempo, lavoro, denaro, fatica, cervello e fortuna richieda creare “quella cosa” che quando diventa tale è destinata a durare nel tempo, nello spazio e nella cultura collettiva. Una cosa che si mangia, si beve, s’indossa, si abita, si guida (eccetera eccetera) che passa di generazione in generazione. Il risultato tangibile e intangibile dell’ingegno e del lavoro di centinaia di persone.
Morale della fiaba. Se si lavora sodo, se non si commettono grosse sciocchezze, una marca è per sempre. E per sempre, il “sempre” di noi mortali s’intende, la marca genererà profitti. Le botte di culo e i miracoli sono invece imponderabili come le oscillazioni del gusto.