Uno slogan è uno slogan. Tra i molti mi ha colpito quello che perentoriamente afferma: “Il Covid non fermi cinema e teatri”. Onestamente da gente di spettacolo mi sarei aspettato qualcosa di più, tipo “Il Covid è un balzello/ Nessuno tocchi Pirandello!” o anche “Roberto Rossellini ce l’ha insegnato/ guardare un film a casa/ è un reato!” ma chissà, forse hanno avuto poco tempo per prepararli. Assai interessante anche l’intervista al manifestante che afferma di “detenere” (insieme alla moglie, precisa) la direzione artistica di un piccolo teatro di provincia. Che se uno è appena un po’ distratto rischia di pensare a una compagnia attiva nel circuito degli istituti penitenziari. Insomma, la confusione anche stavolta pare grande sotto il cielo.
Intendiamoci, non ho nulla contro i lavoratori dello spettacolo, anzi. A parte i giocolieri che al semaforo si piazzano davanti all’auto o quelli che al parco accendono l’amplificatore e sparano a palla la millanta versione dei Pink Floyd che neanche a Francavilla a mare, amo teneramente i lavoratori dello spettacolo. Amo registi, scenografi, costumisti, elettricisti, sarte, montatori, operai addetti alle scene, addetti al catering, trovarobe, truccatrici, maschere di sala, suggeritori, maestri del coro e concertatori. Per non parlare degli impresari e, ultimi ma a nessuno ultimi, anche i “detentori” delle direzioni artistiche.
Di questa più che sacrosanta protesta non mi sono tuttavia chiare le responsabilità del povero Corona-in-Covid. Sono almeno 40 anni (o forse 50) che il teatro, quello di prosa come quello musicale, è in crisi come un alcolista anonimo comandato a Islamabad. Le Traviate, le Manon, i Balli in maschera, i tram chiamati desiderio e persino le bisbetiche domate sono sovvenzionati dallo Stato e quindi da noi cittadini. Alzi la mano chi ricorda sale straboccanti di pubblico pagante, attrici e attori sommersi di applausi, fiori, richieste di bis, carrozze staccate dai cavalli e trascinate dal pubblico in delirio. Per non parlare delle sale cinematografiche vuote come uno stadio di serie A. Insomma, con buona pace dei “detentori artistici”, l’assassino non è il Covid, beninteso nonostante faccia del suo meglio; il crimine l’abbiamo commesso quando abbiamo iniziato a noleggiare le video cassette da Blockbuster e, una volta esplosa la Rete, scaricando illegalmente a manetta i film che avremmo visto nel chiuso delle nostre casette. Insomma, abbiamo consapevolmente o meno premiato un “business-model” piuttosto che un altro, per dirlo con un’espressione che pare una bestemmia. Libertà di fruizione personale (ascolto/guardo quando voglio, come voglio, con chi voglio) vs. piacere della condivisione pubblica in uno spazio-tempo collettivo: privato vince Polis due a zero, fine della storia.
Attori e musicisti, maestri di tango e ballerini, insegnanti di yoga e istruttori di palestra: pagano tutti un prezzo altissimo e hanno il sacrosanto diritto di chiedere aiuto ad uno Stato che ha il dovere di aiutarli. Dire bugie però non serve. La crisi c’era anche prima e il Covid l’ha solo esasperata alla massima potenza. Dobbiamo avere il coraggio di affermare una verità banale come il vestito del Re: questo è un paese a cui la parola “cultura” genera noia e fastidio come la sabbia nelle mutande. Nel Belpaese non si leggono libri e neppure giornali, persino la rosea “Gazzetta” perde copie e colpi. Se ci si reca in una città a caso non è facile incontrare qualcuno che sappia dov’è la biblioteca comunale, ammesso che esista. Si va davvero pochino a teatro nel Belpaese e anche la musica, X-Factor a parte, è sconosciuta peggio di una vergine a Babilonia.
E quindi come si fa “cultura&informazione” nel Belpaese? Diciamo che si leggiucchiano notiziole sul web, spesso false, quasi sempre irrilevanti, sovente mal scritte; rigorosamente gratuite, redatte da gente pagata come i delivery food, disperati della parola scritta che fanno a gara a chi genera più click. E mentre le stelle stanno a guardare, i giornali a pagamento – antica nobiltà e perduto orgoglio dell’intellighenzia nostrana – li seguono a precipizio con i conti in rosso e le pezze al culo, convinti che la salvezza stia nel diventare ancor più popolari per un popolo di analfabeti di andata prim’ancora che di ritorno. Non diamo la colpa al povero Corona-in-Covid, anche lui fatica da bestia a leggere e trascrivere.