Ogni volta che leggo un lavoro di Carlo Rovelli so che sarà necessaria una seconda lettura. E poi una terza e una quarta. Sono consapevole che ciò che credevo di aver compreso sparirà miseramente dalla mia mente con la stessa velocità con cui l’acqua, levato il tappo, scorre nel lavandino. Gli amici fisici che frequentavo nei (lontanissimi) anni dell’università mi assicuravano che è normale. Dicevano che se gli strumenti non vengono adoperati tutti i giorni finisci con lo scordare il loro uso e non distingui la zappa dal piccone. Peccato che i loro strumenti – il formalismo matematico – siano per quasi chiunque più oscuri della Pizia.
L’ultimo lavoro di Rovelli si chiama Helgoland. Tratta di meccanica quantistica. La teoria che negli ultimi cento anni ha avuto più successo nello spiegare le cose. Quali cose? Tutte: dai satelliti agli smartphone, dal giro degli elettroni ai vortici delle galassie. Tuttavia pare che nessuno abbia ancora capito cosa sia la meccanica quantistica. Neppure Rovelli, che pure la studia da un sacco di tempo. La cosa ha una sua involontaria comicità: la teoria che meglio si avvicina alla realtà ultima delle cose non contempla una spiegazione plausibile. Niente certezze, zero determinismo, puro trionfo della probabilità. Paradossi e antinomie come se piovesse, dal povero gatto di Schrödinger agli elettroni che sono sia onda sia particella e mille altre bizzarrie degne dellla “Settimana enigmistica”.
Indagando il mondo dei quanti Rovelli sposa l’approccio relazionale: “La sintesi è che le proprietà degli oggetti esistono solo nel momento delle interazioni e possono essere reali rispetto a un oggetto ma non rispetto a un altro”. E ancora: “non esiste velocità senza stabilire (implicitamente o esplicitamente) rispetto a cosa”. Un addio senza speranza ad ogni assoluto. La meccanica quantistica propone una visione nuova del mondo: le sostanze sono sostituite dalle relazioni in un infinito gioco di specchi.
Affermando che “la ricerca della conoscenza non si nutre di certezze: si nutre di una radicale assenza di certezze”, nelle pagine conclusive Rovelli giunge ad una conclusione che definisce radicale: la fisica quantistica “fa saltare l’idea che il mondo debba essere costituito da una sostanza che ha attributi e ci forza a pensare tutto in termini di relazioni”. Così, dopo un lungo vagabondare filosofico, Rovelli è approdato all’opera di Nāgārjuna, monaco buddhista indiano vissuto nel secondo secolo dc. La tesi centrale della suo pensiero è che non ci sono cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da altro. Secondo Rovelli la risonanza di questo assunto con la meccanica quantistica è immediata. E se lo è per lui, lo è anche per me, anche se sono distante sia dalla pratica buddista che da ogni metafisica. (L’ammonimento di Ludwig Wittgenstein – “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” – continua a risuonarmi nelle orecchie, ma questo è un problema mio).
Concludo queste note con un aneddoto riportato da George Steiner in “Errata, una vita sotto esame”. Racconta come nel corso di una passeggiata Alexis Philonenko, definito da Steiner “uno degli intellettuali più austeri d’Europa” categorizzava i pensatori. Prima venivano i veri creatori, i pensatori originali, gli inventori della filosofia sistematica, figure del calibro di Platone, Aristotele, Cartesio e Kant per intenderci; poi c’erano i divulgatori e gli storici della filosofia, ovvero le persone in grado di esporre i lavori dei maestri al livello tecnico richiesto e situarli correttamente nel discorso speculativo; nella terza categoria, squallida e squalificante, collocava i letterati, i saggisti e i critici e l’immensa maggioranza del mondo universitario.
Poiché di pensatori originali al livello di Platone e compagnia cantante ne nasce se va bene uno ogni cinquecento anni, mi pare evidente che è alla categoria dei divulgatori che dobbiamo rivolgere le nostre speranze. Non sono ovviamente in grado di valutare i contributi che Carlo Rovelli ha dato e darà alla fisica dei quanti. Del suo ruolo di divulgatore e di “storico delle idee filosofiche” della scienza ho invece piena contezza. Di questo e per questo gli sono grato.