“la bussola va impazzita all’avventura / e il calcolo dei dadi più non torna”

By on Mag 2, 2020 in Contemporaneità

Non ci siamo ancora iscritti al PPD, Partito Panificatori Domestici, per la buona ragione che la panificatrice è la Paola Maria, un’anarco-individualista che farebbe volentieri suo il motto “due ebrei, tre opinioni” se non fosse che le pare un poco inflazionato.

Il tema del pane e dell’arte della panificazione domestica continua ad essere centrale nella vita degli italiani. Gruppi familiari variamente sparsi nella penisola si scambiano video di brodaglie biancastre spacciate per lieviti madre, foto di pizze, di pani alle noci, alla curcuma, brioche, focacce, torte di Nonna Papera; e i tutorial su come tirare la pasta annullano per numero e durata i video porno d’antan. Nel nostro piccolo per la felicità della Paola Maria abbiamo acquistato la tirasfoglia dell’Imperia e direttamente da Casa Spadoni un stock di 15 kg di farine assortite.

Yuval Noah Harari non è tenero con le farine di cereali. Nel suo “Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità” sparge più di un dubbio in proposito. Abbandonare l’avventurosa professione di cacciatore-raccoglitore per diventare agricoltore potrebbe non essere stato un buon affare; libertà scambiata con la (precaria) certezza di avere la pancia piena, pagando il prezzo della schiavitù territoriale e alimentare: legato allo stesso posto e allo stesso monotono cibo, con l’ansia di perdere il raccolto a causa del mal tempo e dei saccheggi. Ma a quanto pare – un brivido corre lungo la schiena – la schiavitù paga. Con buona pace dell’avventurosa teoria che Bruce Chatwin, il nomade più stanziale al mondo come lo definivano gli aristocratici amici che lo ospitarono a turno in residenze stupende, ha ribadito con soave indifferenza lungo il corso delle sue opere, sono le società create dall’agricoltura ad aver dato creato la scrittura e ogni altra forma di civiltà. (Alzi la mano chi ha visto un guerriero mongolo errare per la steppa con un pianoforte sulle spalle).

Poiché è tra le specie vegetali più diffuse, è innegabile che il dna del frumento abbia avuto successo basti pensare che alla fine dell’Ottocento l’80% della popolazione italiana si occupava prevalentemente di lui. Nei paesi industrializzati la quota degli addetti all’agricoltura oscilla oggi tra il 3 e 5% assicurando raccolti talmente consistenti che potrebbero nutrire molti più dei 7 miliardi di individui che abitano la Terra; beninteso se il 25% circa del cibo non andasse sprecato. Il merito, lo capirebbe anche un bambino leghista se glielo spiegassero con la dovuta pazienza, va ai grandi accusati della nostra epoca, le sorelle Scienza e Tecnologia. Le quali se ne stanno sul banco degli imputati dalla metà del Seicento, quando un manipolo di manigoldi spezzò l’equilibrio divino rimettendo Tolomeo e Santa Madre Chiesa al loro posto.

Nonostante quest’immenso risultato, le sorelle non godono di buona stampa. Anche se quotidianamente impegnati nel ruolo di assistenti alla produzione di MAD (Manufatti Alimentari Domestici) tra pizze, focacce, pasta all’uovo e frollini, riusciamo persino a trovare un po’ di tempo per lo sfoglio (digitale) dei giornali. Una mazzetta sempre più consistente tenuta insieme dal filo rosso della ricerca del colpevole. La modernità, il turbo-capitalismo, il globalismo liberista, la brama di profitto, l’arroganza (l’arroganza!) dell’uomo verso la Natura (con la enne maiuscola) E, stando a Serra Michele anche le partite iva dedite al nero della bergamasca, che adesso, punizione per la colpa, il nero lo fanno con il lutto. La natura violata dalla tecnica si ribella…

La colpa (“ancora tu ma non dovevamo rivederci più?”)  è il collante ideologico della storia occidentale. Tiene insieme cattolici e riformati (sei ricco? ecco la gomena che non passa dalla cruna dell’ago; sei povero? è il segno dei peccati che hai da espiare) anticapitalisti e ambientalisti, anticlericali e credenti, teologi e teorici della decrescita. Un’accozzaglia che non si vedeva dai tempi felici di Gustavo Zagrebelsky. Eppure, per tornare a Yuval Noah Harari, l’umanità non ha mai conosciuto maggiore ricchezza e benessere e, stando a Steven Pinker (“Il declino della violenza”) neppure altrettanta sicurezza.

Ai cultori della colpa converrebbe forse rileggere (o leggere ex-novo?) le considerazioni di uno sfortunato quanto geniale italiano dell’Ottocento: il nemico, il colpevole, è la Natura non l’uomo. Indifferente e cieca, come avevano compreso gli Antichi, se ne sbatte di noi e dei nostri affanni.

Si presenta sotto forma di terremoto, di esplosione vulcanica e persino di virus. Come spiega Guido Silvestri (“Uomini e virus”) “l’essenza stessa della vita (la crescita del feto) e la rappresentazione più terrificante della morte (il cancro) si delineo come due facce dello stesso fenomeno biologico, al centro del quale si trova l’attività tanto creativa quanto distruttiva dei retrovirus”. La bestia è dentro noi, la bestia siamo noi. E anche questo lo dovremmo sapere da un pezzo.

E la pasta? Nel frattempo la Paola Maria, le mani ancora bianche di farina, m’informa che i lieviti indispensabili alla panificazione fanno parte della famiglia degli eucarioti, stirpe assai più progredita dei modesti procarioti alle quale appartengono i virus. Anche in biologia c’è un Nord e un Sud.

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