Tanto tempo fa, diciamo un secolo circa, scrissi un libro. L’argomento riguardava il perimetro del mio lavoro. Dopo aver vinto le resistenze dell’editore lo intitolammo “La rosa e il giardiniere”. Metafora tratta dall’arte della floricultura per indicare il rapporto che corre tra i brand e coloro che dovrebbero averne cura. Risparmio ai dodici sfaccendati che hanno il garbo di seguirmi la differenza che corre tra un brand e un prodotto; diciamo solo che nelle intenzioni dei progettisti i brand sono (o dovrebbero essere) come le persone: dotati di carattere, morfologia e financo fisiologia unici e distintivi. I brand di successo, ovviamente. Creare un brand che possa avere una ragionevole probabilità di successo è impresa difficile quanto educare un individuo a diventare persona, ovvero autenticamente sé stesso. Riguardo ai brand, studi di settore calcolano che su mille nuovi prodotti lanciati ogni anno sul mercato meno di uno ce la faccia. Una moria che al confronto il Corona è un bruscolino nell’occhio.
Una lunga perifrasi per mettere, finalmente, i piedi nel piatto. Il piatto è l’editoria. Il cuore del piatto sono quei prodotti che un tempo si compravano in edicola e che chiamiamo giornali. Un tempo buoni sino alle 10 e mezza del mattino e poi utili solo per pulire i vetri o incartare il pesce, hanno visto la loro shelf-life dilatarsi, paradossale dono del killer che li sta strangolando. Il quotidiano che trascorso il mattino non valeva più una cicca, si è per così dire settimanalizzato e quasi non ha più data di scadenza. E c’è persino chi come me ritaglia e conserva gli articoli più interessanti. Il motivo è semplice: non sono più le notizie la ragione d’interesse – quelle ce le racconta in tempo reale il web – ma le opinioni, i commenti e (udite, udite) la “buona vecchia inchiesta” di una volta. Quella che richiede tempo, fatica e persino un po’ di vocazione. Perché il mestiere di fare i giornali è come il mestiere della musica: ci vuole orecchio.
Tra tutti i prodotti che hanno saputo fare spillover e diventare brand (tra tutti i prodotti ai quali un accorto divino giardiniere ha saputo infondere vita: carattere, personalità e carica d’affetto) i più fragili e delicati sono i giornali. La loro fattura (la loro fortuna) dipende da una quantità di fattori talmente lunga da richiedere un tempo di lettura che i miei giudiziosi dodici lettori non mi concederebbero. Ai fattori tradizionali (linea editoriale e qualità della redazione) oggi se ne aggiungono un terzo e un quarto: la tecnologia e l’internazionalizzazione. Poiché le notizie – vere, verosimili o false come un governo regionale sopraffatto da un virus – le posso trovare in Rete, bene o male confezionate, più o meno gratis, il motivo che mi convince a spalancare il borsellino digitale dev’essere chiaro e forte: la Rete rigurgita di giornali e giornaletti che si accontentano di un mio click. Non è finita. La grand complication dell’editoria italiana è che gli italiani non amano giornali e neppure la lettura. Non amandoli, semplicemente non li comprano: ai tempi d’oro la somma dei quotidiani nazionali raggiungeva a stento quella del solo Asahi Shinbun.
Bene, se siete giunti sino a qui ce l’abbiamo fatta. Adesso tocca a Gedi provare a farcela. A tal proposito, un giornale di quelli che (per ora) pretende solo un click, stamattina scriveva: “la sua sfida riguarda tutti quanti: una società adulta ha bisogno di un’informazione seria e di qualità perché, come si legge sotto la testata del Washington Post, la democrazia muore nell’oscurità. E più aggiungeva: “qualità, innovazione e sperimentazione sono le parole chiave per reinventarsi al tempo della rivoluzione digitale e per convincere i lettori a pagare ciò che altrimenti potrebbero leggere gratuitamente altrove”. Ecco il punto con cui sono in disaccordo totale: “potrebbero leggere gratuitamente altrove” è una colossale fesseria. La qualità, dall’arte della manutenzione della motocicletta alla quella del mosaico contemporaneo, ha sempre un costo. E spesso pure consistente, come sanno coloro riconoscono un premio ad un brand piuttosto che a un altro.
Cosa sia la “qualità” che determina prima la scelta e poi la fedeltà ad una testata giornalistica, un tempo credevo di saperlo. Ora non ne sono più certo. I miei giornali di riferimento sono ormai irriconoscibili, divenuti estranei come i volti stravolti che il Narratore scruta nell’ultima matinée della Recherche. Cosa sarà di “Repubblica”, il giornale riferimento della sinistra liberal-democratica che una direzione scriteriata ha trasformato in un volgare scimmiotto del “Fatto”? Che ne sarà de “La Stampa”, il quotidiano che aveva un corrispondente a Tokio e nel contempo raccontava le gesta del Canevese? Che ne sarà De “L’Espresso”, il grande settimanale d’inchiesta e di battaglia divenuto lo scopino coatto della domenica? Che ne sarà di noi, cittadini senza cittadinanza, isole perdute nella corrente?
Nota a margine: il Narratore ritrova il Tempo nella scrittura. Noi (“hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère!”) accontentiamoci del dono della lettura.