Credo sia stata Giulia, la ex-corta che mi somiglia, a rammentare che nel Decameron del morbo si parla sì e no nelle prime tre pagine. La peste è un presupposto, un pretesto che lascia immediatamente spazio alla narrazione che tutti conosciamo. È ciò che dovremmo provare a fare anche noi, sommersi da un virus che molto prima dei polmoni soffoca le menti. Spostare la narrazione dalla malattia alla vita, dalla tecnologia – ventilatori, respiratori, statistiche e curve epidemiologiche – alle scoperte quotidiane che i (fortunati) reclusi con il frigorifero pieno e la cantina fornita compiono quotidianamente.
Mutare la prospettiva insomma, senza necessariamente dover ricorrere al moralistico “c’è chi sta peggio”, pensiero che ci perseguita dall’età dell’asilo (“non l’hai finita? pensa ai bimbi del Briafa che muoiono di fame!). C’è sempre chi sta peggio, l’approccio mentale delle nostre mamme, non ha mai alleviato un mal di denti o il gomito della lavandaia; moralismo al quale bisognerebbe avere il coraggio di contrapporre un franco e indomito “c’è anche chi sta meglio”.
Il virus non si rinserra nell’armadietto dei medicinali pensando alla guerra: né quella dei babbi e nonni e neppure ad una scelta a piacere tra le molte in onda sul pianeta. La narrazione siamo noi: la storia della reclusione forzata di una nazione intera. Un evento incredibile che sfugge a qualsiasi definizione: non è kafkiano (non c’è nulla di incompressibile né perturbante) e non c’entra una cippa con le insopportabili citazioni manzoniane con cui da quaranta giorni ci sfiniscono gli zebedei.
Il Corona è una “cosa” perfettamente nuova che funziona come un meccanismo narrativo straniante secondo la (geniale) lezione di Šklovskij: ci costringe a guardare con occhi nuovi a cose (apparentemente) vecchie, a ciò che diamo per scontato e (quindi) non vediamo più. Come il quadro appeso in casa. Come il volto di una persona (un tempo?) amata. Come il romanzo che abbiamo letto tanto tempo fa e di cui non ricordiamo più nulla.
Quando mai i mariti hanno trascorso 24 ore filate a casa con le proprie mogli e viceversa? E quando mai i figli sono stati così a lungo e così ininterrottamente con i loro babbi e con le loro mamme? E che accadrà, domani e dopodomani, alle migliaia (ai milioni?) di amanti di lungo corso piuttosto che occasionali? E che passa per la testa alle donne (agli uomini) costretti a trascorre in solitudine i lunghi giorni del Corona?
Non essendo Boccaccio, non sono purtroppo in grado di approfittare dell’opportunità che il Corona offre, così come temo più della peste i poeti dilettanti che a milioni scalpitano in clausura. Auspico la creazione di un racconto personale all’interno di ogni nucleo, familiare e non: un’invenzione quotidiana, un gioco, una bizzarria inusuale e impensata, che dia senso al tempo che ora inevitabilmente ci appare perso prim’ancora che perduto. Un giuoco, questa è la speranza, che ci farà ritrovare cambiati quando ritorneremo alla normalità usciti dalla caverna delle nostre reclusioni.