Metafore

By on Mar 20, 2020 in Contemporaneità

Inevitabile ripensare in questi giorni a “Malattia come metafora”, un piccolo libro pubblicato da Einaudi nell’ormai lontano 1979. In poche luminose pagine, la Sontag descrive non la realtà della malattia (quella più o meno la conosciamo tutti) e neppure la fatica del vivere con la malattia, ma le fantasie e i sensi di colpa elaborati intorno alla malattia e alla condizione di malato.

Come ricorderanno le persone non più giovani, l’AIDS fu all’inizio inteso come la malattia riservata ai comportamenti criminali perché ritenuti contronatura (sic) degli omossessuali. La Sontag sostiene che il modo più adeguato (e più adulto) di affrontare la malattia consiste nell’essere liberi da pensieri metaforici: la tubercolosi, terribile flagello divenuto però simbolo di raffinatezza romantica, contrapposto al cancro che è “il barbaro che è noi”, parola che ha finito con l’assumere il significato di degenerazione politica e morale (il “cancro della corruzione”).

Se la malattia diventa una metafora, si finisce col psicologizzare la malattia rovesciando sul povero malato anche l’onere della colpa; non c’è nulla di più punitivo, conclude la Sontag, che attribuire a una malattia un significato – qualsiasi esso sia – perché quest’ultimo sarà inevitabilmente moralistico e graverà il disgraziato sofferente di una colpa che non ha.

Tesi che dà addosso (assai giustamente) alle sciocchezze dei signori Groddeck e Reich, esponenti della scuola psicosomatica i quali ritenevano che le malattie e il cancro fossero l’effetto di privazioni emozionali; in buona sostanza sarebbe bastato “scopare meglio e di più” (magari in una delle “gabbie energetiche” inventare da Reich) per tener lontano il morbo. Ahinoi, troppo bello per essere vero.

L’ho fatta un po’ lunga e mi scuso. Il punto d’arrivo è il signor Corona, divenuto rapidissimamente la malattia più nota al mondo grazie alla vasche che ci facciamo nel piscina digitale in cui siamo immersi sino al collo. Certamente è presto per trarre conclusioni sensate sulle “metafore” che stiamo producendo su questa nuova malattia; ciò che invece è possibile già ora fare è un’analisi sullo stato della “società Gesù bambino” in cui viviamo, analisi resa possibile dal diluvio di notizie (vere, verosimili, false, falsificate e/o falsificabili) prodotte incessantemente dai social e dai media on-line.

I protagonisti di questa immensa messe di bit (a proposito: quanto ancora reggerà la rete ai miliardi di video HD e di video chiamate?) sono per il momento classificabili in tre cluster principali: i nuovi apocalittici; negazionisti ad oltranza; solo-io-nell’universo.

Sono facili da riconoscere: quelli che moriremo come le mosche, moriremo poveri peggio che nel ’29 e per di più senza un briciolo di privacy (“la privacy, la privacy signora mia!); quelli che se non posso fare i cazzi miei (correre, festeggiare, socializzare) è un attentato alla Costituzione; quelli che la pandemia è un’invenzione (di Bill Gates, della China, di Toto & Peppino)

Non ho vissuto il tempo della guerra: bombe, sfollati, nazifascisti, fame, tessere annonarie, borsa nera. zero antibiotici, sanità al lumicino. Sono cresciuto nel dopoguerra quietamente democristiano che il Norman Rockwell prima maniera avrebbe illustrato benissimo. La piccola provincia ipocrita impegnata a scordare la guerra civile, la miseria, l’emigrazione. Poi come un bengala è esploso il ’68 e le ragazze hanno gettato i grembiuli e i ragazzi smesso le cravatte, e le ragazze hanno iniziato a baciare i ragazzi, cosa del resto che avevano più o meno sempre fatto ma con molti più sensi di colpa eccetera eccetera; le ragazze e i ragazzi che andavano a scuola, gli altri in fabbrica o nei campi avevano altri problemi. Una stagione bellissima a cui dobbiamo molto. Soprattutto coloro i quali usano le libertà (al plurale) per cercare di limitare la libertà degli altri.

Purtroppo i doni degli dèi comportano un prezzo da pagare. La società Gesù bambino – zero responsabilità, zero doveri, annullamento delle diversità individuali, gioia maligna di tirare giù chi aspira al cambiamento e alla propria personale realizzazione – conducono alla fine della storia. La resa collettiva di una società che nega la possibilità di crescita, di miglioramento, di sviluppo. Il trionfo del nichilismo scemo da strapaese senza gioia e senza speranza. Come sempre per fortuna c’è chi ricorda che i virtuosi, gli onesti, le donne e gli uomini di buona volontà, sono di più. Sono sterminata maggioranza. Ma è sempre la minoranza rumorosa, quella sguaiata e sgarbata, ad occupare il centro della scena. Sono gli avanguardisti, i bolscevichi, quelli che fanno colpi di stato, le maggioranze poi seguono come l’intendenza. Chi continua ad uscire senza vera ragione, chi s’accalca, chi torna al Sud e infetta i nonni, chi nega per paura, chi omette per viltà, chi io sono io e gli altri cazzi loro. È questa la malattia vera. Al confronto il povero Corona è solo un mentecatto che per campare ha bisogno di noi.

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