Una festa

By on Mar 5, 2020 in Contemporaneità

Certo, domenica scorsa avranno pensato che fosse tutto finito. L’ho pensato anch’io recandomi senza troppo pensarci all’Ikea. Dovevo sostituire un gancio, uno di quelli con la coda e le zampe che si attaccano al muro. C’era il mondo all’Ikea, il mondo placido e tranquillo di chi passeggia nei corridoi artificiali senza fretta e senza (apparente) meta. Mentre io le avevo entrambe, la fretta e la meta. Ma non sono (non siamo) tutti così imbecilli a Milano. Semplicemente non avevamo compreso che le strade vuote di Wuhan, risultato di un coprifuoco militare imposto ad una città di 11 milioni di abitanti, non era (solo) il frutto del dispotismo asiatico, ma una necessità. La malattia, questo genere di malattia, si affronta così.

Chi appartiene alla mia generazione ricorda la crisi petrolifera del ’73, la fine dell’innocenza e gli anni di piombo che seguirono. C’era incredulità e stupore in quelle domeniche a piedi, ma c’era anche gioco e c’era persino allegria nei giorni plumbei che sancivano senza che noi lo sapessimo la fine del miracolo economico; le immagini dell’epoca ci restituiscono i visi sorridenti di persone sui pattini a rotelle, in bici, a cavallo, seduti in carrozza o a cavalcioni di improbabili automobiline a pedali. Lo shock petrolifero mandò in tilt più di un cervello. Quello dei dirigenti dell’Alfa Romeo statalizzata interpretò il risparmio energetico nel modo più idiota: invece di fare ricerca, come BMW, VW e Mercedes per intenderci, suicidò il brand proponendo equivoci come l’Alfasud o esercizi di teratologia come l’Arna (“Arna, e sei subito Alfista!” recitava un criminale commercial dell’epoca).

Non c’era gioco né allegria negli anni di piombo. Si usciva lo stesso la sera, e si viaggiava e si andava in vacanza. Ma l’aria era pesante e come appestata. Quando arrivò la notizia di Bologna, lo stupore non superò lo sgomento: l’educazione all’orrore, l’abitudine all’orrore, avevano scavato in noi il solco della consuetudine ad un evento contingibile che non dovrebbe accadere, ma se accade siamo in qualche modo pronti a riconoscere come parte del nostro mondo perché è già accaduto e accadrà ancora. La violenza come norma. L’orrore come abitudine. La diffidenza come cifra metropolitana (sarà un amico o un nemico quello che incontrerò fuori dal portone di casa?) la separatezza in etnie, tribù e clan ringhiosi come ordini religiosi che si competono anime di fedeli sempre più distanti e distratti: in quale dio di bontà e di speranza credere ancora?

Milano sembra vuota, ma è un’apparenza. Il traffico ieri era fastidioso il solito, e non era nemmeno un’ora di punta. Milano sembra vuota perché molti bar e ristoranti sono chiusi. Perché gli amici cinesi che rendono viva e amichevole via Sarpi hanno diligentemente sospeso i loro traffici. Milano sembra vuota, ma è un’apparenza. Milano non è vuota, si è nascosta. Come il virus. C’è chi pensa e scrive che la città e noi con lei abbiamo commesso un peccato di hybris – orgoglio, arroganza, presunzione, superamento dei limiti e altri crimini contemporanei – che avrebbe fatto incazzare gli dèi; che raggiunto l’apogeo l’inizio del declino sia in qualche modo inevitabile. Sbagliato. Quando la tua città parla un’infinità di lingue e ha mille facce e mille colori, quando ad ogni ora del giorno e della notte puoi mangiare, bere, fare la spesa, ballare, sentire musica e fare ciò che più ti va, vuol dire che finalmente sei uscito dal maledetto strapaese e che, soprattutto, non ci tornerai più. Si chiama rivoluzione culturale. E anche questa l’hanno fatta prima in Cina. Ma la loro era una tragedia, la nostra è una festa.

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