L’antisemitismo, il più grande mistero dell’umanità. Non serve leggere l’opinione del Tale né compulsare il Talaltro. Men che meno spaccarsi la testa sulle riflessioni (il più delle volte) squisite di questo o quel rabbino. Anche rivolgersi a Sigmund, che pure l’ha patito, è inutile. La sola spiegazione plausibile è che gli antisemiti hanno bisogno degli ebrei come i tossici dell’eroina. Con la differenza che i tossici pdi eroina crepano mentre gli antisemiti di antisemitismo ingrassano. Se ne conclude che se gli ebrei non esistessero bisognerebbe inventarli: perfetta valvola di sfogo sperimentata in duemila anni di attività. Quello che invece è un banale luogo comune è che l’antisemitismo sia generato dalla miseria morale e materiale. Falso. Certo, non che povertà e ignoranza non abbiano la loro quota di responsabilità; il leggendario successo che riscuotevano i pogrom nella Russia zarista è all’origine di una narrazione infinita, la testimonianza di come il combinato disposto di nazionalismo e antisemitismo sia il cocktail ideale per far scordare alle masse popolari la più infima delle condizioni.
Peccato che nella Vienna fin de siècle il più solido antisemitismo lo manifestassero non tanto i mugichi quanto gli aristocratici e i borghesi, gli studenti universitari e i professionisti. Un odio che persino molti ebrei manifestano verso sé stessi; ebrei che fanno di tutto per essere più tedeschi dei tedeschi, impegnati in un incredibile sforzo di assimilazione che li porta persino ad auspicare la conversione in massa al cattolicesimo. Di questo clima dove l’odio si mischia al talento e la meschinità al genio, dà conto il lavoro di Riccardo Calimani per Bollati-Boringhieri. Ne “La grande Vienna ebraica” ritroviamo gli interpreti e i protagonisti di tutto ciò che ieri come oggi chiamiamo “cultura”: filosofia, scienza, arte, musica, architettura, poesia, pittura. Un affresco che da conto di quando la capitale della cultura europea dovesse a un nucleo ridicolmente ridotto di persone di cultura ebraica (Stefan Zweig stima non fossero più di 20 mila persone) elemento vitale che animava i teatri, le sale da concerto, i Salon di pittura. Il pubblico colto e cosmopolita che rendeva Vienna, la provinciale assonnata bigotta capitale del Regno di Kakania come la chiamava Musil, il luogo più stimolante al mondo. La città di Freud. Herzl, Weininger, Hofmannsthal, Schnitzler, Mahler, Canetti, Buber, Wittgenstein, Roth, Husserl, Schönberg, Klimt, Kokoschka, Schiele.
Un racconto che dà i brividi a chi come noi sa come andranno a finire le cose. Pochi allora compresero o vollero comprendere. Era difficile anche solo pensarlo. Eppure l’odio antiebraico si manifestava in modo forsennato. C’era chi affermava di riconoscere l’ebreo dall’odore, e chi sosteneva di riconoscere gli ebrei dalla pronuncia – seppure perfetta! – del “loro” tedesco. Un odio forsennato, dichiaratamente razziale (la parola aveva ancora qualche baluginio di legittimità) che diventa istituzione, ovvietà, dato di fatto. Le lettere di Freud all’amico Fliess testimoniano l’umiliazione subita dal padre della psicoanalisi: l’ebreo non può neppure pensare di ottenere una cattedra all’università.
Bastava un poco di pazienza, furono necessari solo una manciata di anni. E, come per magia, gli ebrei che resero Vienna grande e unica si ritrovarono a lucidare i marciapiedi di quella che era stata la loro città con gli spazzolini da denti. Spariti loro, qualcuno in salvo la più parte passati su per il camino, la città ritornò ad essere ciò che è sempre stata: una sonnacchiosa vecchia zia di provincia.